Le lacune della nostra sanità: risorse e decentramento
Il rapporto Pubblicato il dossier dell’Osservatorio sulla salute diretto da Walter Ricciardi. La pandemia ha messo in luce un sistema frammentato e diseguale. La sola spesa sanitaria in aumento è quella privata. 33 mila posti letto persi in 8 anni
Il rapporto Pubblicato il dossier dell’Osservatorio sulla salute diretto da Walter Ricciardi. La pandemia ha messo in luce un sistema frammentato e diseguale. La sola spesa sanitaria in aumento è quella privata. 33 mila posti letto persi in 8 anni
La pandemia ha rappresentato un evento eccezionale nella storia di questo paese. Ma sarebbe un errore, una volta superata l’emergenza, ridurla a un brutto sogno da dimenticare rapidamente. Il Covid-19 ha infattI portato alla luce le lacune del nostro sistema sanitario, per le quali adesso è urgente correre ai ripari. È il messaggio principale del corposo rapporto «Osservasalute. Stato di salute e qualità dell’assistenza nelle regioni italiane»: quasi 600 pagine dense di tabelle e grafici curate dall’Osservatorio sulla salute dell’università Cattolica di Roma, sotto la direzione di Walter Ricciardi. Il rapporto è stato presentato ieri e, pur riferendosi al 2019, non può non risentire del contesto in cui è stato redatto e pubblicato.
SE IL SALTO DI SPECIE del coronavirus non poteva essere anticipato, alla luce dei numeri erano prevedibili i punti deboli della nostra sanità. O, come sarebbe meglio dire, delle nostre sanità. Uno degli aspetti critici messi in luce dalla pandemia è stata infatti la frammentazione del Servizio Sanitario Nazionale conseguente alla riforma del 2001 che ha affidato alle regioni il compito di organizzare la sanità. «L’esperienza vissuta ha dimostrato che il decentramento della sanità, oltre a mettere a rischio l’uguaglianza dei cittadini rispetto alla salute, non si è dimostrato efficace nel fronteggiare la pandemia» spiega il direttore scientifico dell’osservatorio Alessandro Solipaca.
«Le Regioni non hanno avuto le stesse performance, di conseguenza i cittadini non hanno potuto avere le stesse garanzie di cura. Il livello territoriale dell’assistenza si è rivelato in molti casi inefficace, le strategie per il monitoraggio della crisi e dei contagi particolarmente disomogenee, spesso imprecise e tardive nel comunicare le informazioni».
È ESEMPLARE IL CONFRONTO tra Lombardia e Veneto, le prime regioni a entrare in emergenza dopo i casi di Codogno e di Vo’ Euganeo che da quel momento hanno seguito strategie autonome, con risultati ben diversi.
L’abbandono della sanità territoriale da parte delle giunte di centro-destra lombarde ha riversato un enorme numero di malati sui pronto soccorsi e sulle terapie intensive degli ospedali della regione. La rete della medicina di comunità del Veneto – prudentemente tutelata dal governatore Zaia – ha invece permesso di curare in anticipo, e a casa propria, i malati. Risultato: in Veneto si è rilevata la quota più elevata di casi positivi in isolamento domiciliare, dal 70% dei primi giorni al 90% della fine dell’ultimo periodo. In Lombardia, i pazienti ospedalizzati sono stati tra il 50 e il 60% inizialmente, per poi arrivare al 70-80% nel picco.
D’altronde, è toccato alle regioni tenere in piedi un servizio sanitario mediamente impoverito dal governo centrale. Le cifre parlano chiaro: la spesa sanitaria pubblica è riuscita nell’impresa di crescere ancora più lentamente (+0,2% su base annua tra il 2010 e il 2018) del Pil italiano, aumentato al tasso dell’1,2% nello stesso periodo. Compensare il taglio effettivo della spesa sanitaria è toccato alle famiglie, che hanno visto lievitare la spesa sanitaria privata del 2,5% annuo. Alla fine del 2018, la spesa sanitaria complessiva ha raggiunto i 153 miliardi di euro. Di questi, 38 miliardi (il 25% circa) sono stati pagati direttamente dai cittadini. Nel frattempo, è continuata l’opera di “razionalizzazione” della sanità, con 33 mila posti letto cancellati (-1,8%).
LE DISPARITÀ REGIONALI si sovrappongono a quelle che colpiscono le diverse classi sociali. La popolazione immigrata dai paesi più poveri, ad esempio, utilizza i servizi sanitari il 40% in meno degli italiani. Secondo il rapporto, «tale divario potrebbe essere la risultante di un mix di fattori, costituito da un lato dal migliore stato di salute della popolazione immigrata (effetto “migrante sano”), che opera come selettore naturale sulle persone al momento della partenza, e dall’altro dall’effetto di barriere burocratiche e linguistico-culturali all’accesso».
LA CARENZA NELLE ATTIVITÀ di prevenzione si misura anche nella bassa copertura vaccinale contro l’influenza: nessuna delle regioni italiane ha raggiunto l’obiettivo minimo fissato nel piano nazionale di prevenzione, cioè la vaccinazione del 75% degli ultrasessantacinquenni. Ci si avvicina (si fa per dire) la Basilicata con il 66%, mentre in provincia di Bolzano non si arriva al 40%. Innalzare queste percentuali entro l’autunno sarà fondamentale. Dato che i sintomi di Covid-19 e influenza nelle fasi iniziali si assomigliano, le procedure di isolamento e test saranno estesi in maniera precauzionale anche ai malati di influenza. Una maggiore copertura vaccinale consentirebbe di ridurre per quanto possibile la componente influenzale nella popolazione malata e concentrare le risorse sul coronavirus.
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