È forse in quella che Magris ha chiamato «nostalgia della vita», trovandone imbevuta la letteratura mitteleuropea, la radice del nostro anelito incessante a una maggiore pienezza dell’esistere, oggi degradata a brama consumistica. Ma fu Charles-Louis Philippe a tradurla in un motto che ha del sovratemporale: «L’amore è tutto ciò che non si ha», scrisse il francese, ed è a questa Sehnsucht che attinge Stiratore di luce, un racconto lungo di Franco Stelzer uscito per Hopefulmonster (pp. 88, euro 12), presentato al Salone con altre due pubblicazioni della collana «Pennisole» diretta da Dario Voltolini.

Già in precedenza l’autore trentino aveva mostrato familiarità con quel connubio di esattezza e rarefazione che è fra i tratti distintivi delle poetiche della Mitteleuropa. In coda a una produzione parca ma inconfondibile, Cosa diremo agli angeli (Einaudi 2018) era anzi già un non plus ultra di osservazione immaginosa dell’operosità altrui, con un narratore la cui indole contemplativa si sposava con sospirante rassegnazione agli atti ripetuti di una vita semplice. Qualità, queste ultime, che ritornano in Bodo, il protagonista di questa storia ambientata sul crinale montuoso di Friburgo in un momento imprecisato del secondo Novecento.

È UN’EPOCA in cui gli elettrodomestici sono presenti «quasi in ogni casa» e in cui si fa ancora ampio uso di fazzoletti di stoffa, giacché questi ultimi sono, con le camicie, gli oggetti che Bodo preferisce stirare e ammirare ripiegati nel negozio in cui affianca la «Mamma», con l’iniziale maiuscola. È lei infatti il riferimento assoluto, genitrice e guida, depositaria di ogni saggezza agli occhi di un figlio segnato da qualcosa che la quarta di copertina definisce «delicata demenza».

MA È UNA DIVERSITÀ dalle qualità più letterarie che patologiche, che fa di Bodo uno zelante assistente dal cuore bambino, bisognoso di sicurezza, i cui poli emotivi sono la paura di sbagliare (una piega, o la combinazione dei colori nel bucato) e la dolce malinconia che lo pervade la sera, quando si affaccia alla finestra prima di coricarsi e inspira l’aria che scende dal monte: è la sua peculiare nostalgia, il sentore di una mancanza esistenziale che la routine e i farmaci tengono a bada, pena un parossismo nervoso che porterebbe a un senso troppo vivido della realtà e infine alla crisi o «esplosione».

ATTRAVERSO LA VETRINA del negozio, dove madre e figlio lavorano in bella vista, Bodo un giorno nota una donna le cui virtù si manifestano nei gesti minimi, nell’interazione con un vecchio o con il proprio figlioletto, ed è l’inizio. Quando poi la sorprende ad osservare i vecchi oggetti che la madre ha esposto in vetrina con la speranza di arrotondare i magri introiti, si fa coraggio ed esce a parlarle. La donna è interessata a un tavolino, chiede quanto costi.

BODO VA IN TILT, è sua madre a occuparsi dei soldi; poi ripensa a quanto costa un litro di latte, che «è buono» e «ti dà piacere», e lo moltiplica per tre. Sopraggiungerà Mamma a sistemare le cose, ma l’indomani il figlio, incredulo, si troverà davvero a trasportare il tavolino in casa della donna. E anche qui il narratore è abile, grazie alla focalizzazione interna, a sfumare l’inadeguatezza di Bodo, a custodirne l’innocenza.
L’amore nasce così, mai nominato, dall’ammirazione di una natura femminile in parte analoga, in parte contrapposta a quella materna. Peccato che per Bodo somigli molto all’eccitazione dei sensi che lo coglie prima delle crisi e nella quale si sente più euforico e luminoso, sicché di lì a smettere di assumere i farmaci, così da approcciare la donna con maggior sicurezza, il passo è breve – e avrà un effetto dirompente.

LA SECONDA PARTE è poi un risveglio in cui il ritorno alla routine riesce a malapena a rassicurare la madre. Basteranno un addio inaspettato e una mappa geografica a rimettere in moto lo slancio del protagonista, che insegue il proprio sogno vitale nell’imminenza di un passaggio del Tour de France sulla cima dei Vosgi dove otto vergini si suicidarono per scampare ai mercenari svedesi. Tutto sembra così condurre a un finale chiassoso e caleidoscopico, salvo poi ridursi a una visione: quella a cui Bodo non resta che abbandonarsi.