Jane Sautière firma il suo ultimo romanzo, uscito da poco anche in Italia presso La Nuova Frontiera, e lo intitola Corpi Mobili (pp. 128, euro 16,90). Lo stile cesellato, che emerge anche grazie alla bella traduzione di Silvia Turato, ci consegna un memoir labirintico, in cui può capitare di perdersi, poiché il testo sembra costruito tra luce e buio, proprio come nelle ombre cinesi. Se il flusso del racconto si posiziona sul limitare del tempo del ricordo, in un altrove lontano dalla Francia, la narrazione comincia al presente in un giorno di primavera in cui i raggi del sole, taglienti, accompagnano la voce della narratrice in attesa del coche d’eau, il battello elettrico che da La Villette porta al Carrefour d’Aubervilliers fino al canale Saint-Denis. Presente e passato si toccano nel punto tangente della traccia ritrovata, del vestigio, del segno che si era perso e che si ritrova nella memoria, anche in quella visiva; perché è proprio un’esperienza ottica a dare il via alla scrittura, come quella dei corpi mobili, quelle macchie detritiche che appaiono nel campo visivo e disturbano la vista.

La scrittrice Jane Sautière

Perché la memoria seleziona e ci lascia solo alcuni ricordi? È sotto il segno del torbido, nell’accezione di semi oscurato, che Jane Sautière scava nei ricordi che le sono rimasti della Cambogia e ci racconta gli anni della sua adolescenza, dal 1967 al 1970, quand’era studentessa a Phnom Penh. Sono le voci, le immagini sfuocate ma soprattutto le ombre che la riportano a quel passato, che ritrova battagliando contro i buchi neri della memoria che se ne va, contro l’abominevole dimenticanza. «Metto in discussione ciò che vedo. Ma non discuto il mio oblio, che resta quindi, alla fine, un punto fermo nella vertigine permanente», scrive l’autrice.

Questi ricordi, nati da un tempo ritrovato, raccontano di questi corpi fluttuanti, mobili, dei frammenti di memoria che emergono insieme alle vicende che ritroviamo nei libri di storia: i giorni di scuola al liceo, gli amori, il rapporto con i genitori insieme agli odori dei mercati, al razzismo dilagante, ai Khmer rossi e alla Cambogia degli anni Settanta del secolo scorso. «Qui tutto migra e scorre. Terra e acque si mescolano poi si separano, il Mekong è un re, un elefante, una maestà, il Tonlé Sap si allarga come sotto l’effetto di una marea, inverte il suo corso, e allora si tengono delle feste consacrate ai geni delle acque, la cui esistenza mi sembrava indiscutibile. Perché qui tutto è spirito, popolamento attraverso lo sciame, la migrazione degli elementi, il fluido e l’instabile, e tuttavia forza irrefrenabile. Ciò che è morto lo è davvero? Allora perché il palo della luce mette radici e si ricopre di foglie?».

Il titolo del suo romanzo «Corpi mobili», può riferirsi da una parte alle miodesopsie – difetti della vista -, ma anche a tutto ciò che rappresentano le (nostre) ombre; dall’altra ci porta a dei corpi che non si agitano per movimento proprio ma che fluttuano mossi dalle correnti. Vuole parlarci della polivalenza che porta il titolo del suo romanzo?
I corpi fluttuanti sono una malattia del corpo vitreo che, staccandosi, crea un’ombra che si proietta sulla retina. Mi è venuto in mente che questo fenomeno corrisponde anche a ciò che nella nostra vita, staccandosi o allontanandosi da noi, costituisce un’ombra ancora percepibile. Quella di persone ormai scomparse, o di oggetti o ricordi che abbiamo caricato a livello emotivo (le buste di posta aerea, le sigarette). Mi è sembrato importante che il corpo, quello reale e quello metaforico, fosse associato nella scrittura. Che fossero presenti sotto forma di ombra e di evocazione.

Nel suo romanzo la dimensione del ricordo si accompagna a quella dell’oblio. Mi riferisco agli ultimi anni del regime di Norodom Sihanouk, della sua adolescenza in Cambogia, a Phnom Penh, dal 1967 al 1970. Quali sono stati gli strumenti con cui la voce narrante ha maneggiato questo passato – in quanto protagonista della storia? Cosa sopravvive quando le persone e le cose sono scomparse?
È stata la difficoltà di questo libro: come scrivere di ciò che la memoria non ha conservato? Questa domanda, indirettamente, ci porta a interrogarci sulla natura di questo oblio. La tentazione era quella di voler riparare questa perdita, di cercare di recuperare a tutti i costi. Ho dovuto abbandonare questa posizione e lasciare che l’inconscio prendesse il sopravvento, lasciando che si associasse a un nome, a una sensazione, a un odore. In realtà, credo davvero che ciò che è stato dimenticato sia stato dimenticato soprattutto a causa dell’orrore di ciò che è accaduto in Cambogia, al genocidio che ha inghiottito parte della popolazione. C’è qualcosa di cui non si può parlare, che porta la gente alla cecità. Non volevo arrivare a tanto e ho potuto farlo solo grazie al sostegno di artisti come Rithy Panh e Christophe Boltanski. Sono stati loro a tenermi per mano. Le loro opere, che interrogano la memoria e la storia, hanno un magnifico potere evocativo. E anche la certezza che non si scrive mai soli e sole!

Marguerite Duras e il suo bellissimo «Una diga sul Pacifico» sono personaggi della sua narrazione. Lei spiega che l’ha adorata, ma anche odiata – parlando di quest’odio come un «segno d’amore», un desiderio di avvicinare la scrittrice…
Ah, è violento, sì. Duras instaurava spesso relazioni ambivalenti in amore. A volte c’era crudeltà, in particolare nel rapporto con Yann Andrea, il suo giovane amante. C’era qualcosa di esasperato nell’amore – che non conosceva limiti. Uso questo odio e questa violenza nei suoi confronti come potrebbe fare una delle sue eroine. Allo stesso tempo, sono presa dagli stessi impulsi, ma li respingo anche per ribellarmi alla tossicità di quell’amore.

Il racconto delle violenze sociali perpetrate dal razzismo coloniale abitano le pagine del suo romanzo, come il fiume Mekong «un re, un elefante, una maestà» e la bellezza lussureggiante del mondo animale e vegetale cambogiano. Una coesistenza è possibile?
Sì. In tutto il pianeta conviviamo con la bellezza e l’orrore che imponiamo a questo mondo. Ci penso spesso, anzi sempre di più. La violenza inflitta dagli uomini di potere sfigura l’idea stessa di bellezza, eppure la bellezza è lì. Non è una consolazione, ma è lì, come un ideale, come la prova vivente che c’è un motivo per lottare. Se il sentimento, la sensazione di bellezza scomparisse, dove andremmo, come lotteremmo? Penso spesso al passo di Se questo è un uomo, alla scena in cui Primo Levi e il suo compagno di lavoro attraversano il cortile del lager, carichi della loro pentola da cinquanta chili. E poi, all’improvviso, sorge il canto di Ulisse, l’ottavo cerchio dell’Inferno dantesco. E Primo Levi deve, assolutamente, recitare, dire e tradurre questi versi a Jean, il suo compagno di lavoro: «Considerate la vostra semenza:/ fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza». Dice che gli sembra di sentire questi versi per la prima volta, che sembrano la voce di Dio. Deve ricordare in fretta, prima di mezzogiorno. Ci sono lacune, vuoti di memoria, ripetizioni. E ciò mi sembra proprio il dire che deve essere detto. E mi sembra anche che tutta la nostra speranza sia contenuta in questa scena, portata come una zuppa da due uomini schiacciati, la cui intera energia è quella di rimanere legati all’umanità, attraverso ciò che meglio può contenerla: pochi versi, la loro bellezza, e il fatto stesso di trasmetterli. Sta a noi che sia ora e per sempre.