Cultura

Le incerte epistole della mutazione digitale

Le incerte epistole  della mutazione digitaleUn particolare dell’installazione «Speculative Ambience» (2016, Biennale di Berlino) a cura di Iconoclast

Saggi «Il rovescio d’autore» di Gabriele Frasca per le edizioni d’If. L’aura perduta della narrativa alle prese con i vincoli del mercato e delle nuove tecnologie

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 2 settembre 2016

Non molte parole possiedono un grado di ambiguità simile a quello del termine «lettera». Decontestualizzato, ci parla simultaneamente di segni grafici o di messaggi da recapitare; ma una volta reso al plurale coinvolge un rango molto più ampio di attori, la cultura, la letteratura. Le lettere appunto. Tentare di afferrarne «alla lettera» il senso ultimo, è impresa ardua. Perché le lettere sono sfuggenti. Un filtro tra la realtà e una sua presunta codificazione, tanto instabile da far confondere spesso i due ruoli ad esse associati del latore e dell’autore. Raro il caso di coincidenza tra i due, eccezion fatta per il postino di Atonio Skármeta.

Ma possono morire le lettere? La domanda ne richiama un’altra: sono esse oggetti inanimati? Nel senso latino di epistulae, qualcuno potrebbe sospettare che sì, le lettere possono morire – a giudicare almeno dal fatto che in inglese il termine dead letter esiste eccome, e designa le lettere smarrite. Quelle lettere ovvero che muoiono perché non arrivano al loro destinatario. Ma muoiono davvero? E che dire di tutte le altre, del tracciato visivo del rappresentare, e anche del mondo o della «repubblica delle lettere»?

Il quesito della loro morte, sollevato da Gabriele Frasca anni orsono – e più di recente nella nuova edizione de La lettera che muore – viene, in maniera neanche troppo latente, riarticolato quasi da capo nel lavoro che ha appena dato alle stampe: Il rovescio d’autore. Letteratura e studi letterari al tramonto dell’età della carta (edizioni d’If, pp. 296, euro 25).

L’arcano della tradizione

Gabriele Frasca affronta con rinnovato acume autori a lui cari (Joyce, Beckett, Nabokov, Gadda in primis) e questioni di cui non ha smesso di occuparsi negli ultimi anni, quali appunto le sorti della letteratura in un mondo di stravolgimenti tecnologici, il rapporto di asservimento tra questa e le dinamiche del mercato, il senso degli studi critici e la loro (ri)formulazione. Ma a differenza delle sue ultime opere (Joyicity e Lo spopolatoio soprattutto) pare qui di poter rintracciare un tentativo di tirare le fila, di cogliere, ma senza formalizzarla, data la sua proverbiale volubilità, una forza arcana che muove la tradizione della scrittura, quella della «funzione» di un autore. È una sorta di residuo psicologico attivo che trasmigra da un’opera precedente alla platea delle successive, mettendo in «ricircolo» il potere, pervasivo prima che persuasivo, di nodi chiave dell’immaginario.
Il connubio storico, ovvero la stretta di mano segreta – un patto di morte – tra la letteratura propriamente detta, ossia quella destinata alla commercializzazione, e il mondo della borghesia, sia in termini di pubblico leggente che di interessi economici, viene rideclinato dal patto ancor più mefistofelico tra le parabole della finanziarizzazione del capitale e la triste industria del best-seller a cottimo.

Una considerazione di fondo, questa, che fa da bordone, o da cornice alla discussione che dei temi chiave che occupano i capitoli centrali. Tra questi una seconda microcornice, ovvero quella del metodo, dei metodi critici con cui avvicinare la testualità. Metodi anch’essi mostratisi spesso servili, integrati a un sistema culturale e universitario in cui il vero interesse non è la materia del contendere, ma gli «interessi» coinvolti: «i poveri studiosi senza sugo che formiamo, conoscono un unico metodo, quello filologico, e ne diventano adoratori, disinteressandosi del tutto al dettato del testo che sono chiamati letteralmente a blindare».

Ma un problema di un certo rilievo sorge allorché il testo che si è chiamati a blindare resiste a quest’operazione normativa e prescrittiva. È il caso degli autori che «fuoriescono dalla letteratura», quelli i cui prodotti non consentirebbero museificazione a meno di limitarne irrimediabilmente il volo. E ovviamente torniamo qui ai vari Joyce che infestano i vari Gadda; come nel caso, appunto «del riaffiorare in Gadda della forma narrativa (il romanzo) da lui più perseguita (…) quella per l’appunto che Joyce aveva magnificato sì, ma secondo un suo progetto di fuoriuscita dalla letteratura, e dalla sua spinta identitaria e nazionalista, che il Pasticciaccio, a sua volta fin troppo sospettoso nei confronti dell’istituzione letteraria, non avrebbe esitato a fare proprio».

La questione della fuoriuscita dalla letteratura mette all’indice ovviamente tutti quei prodotti editoriali che oggi con pragmatica saggezza inglese dovremmo semplicemente chiamare fiction: una delle traduzioni, la più onesta forse, del termine letteratura. Fuoriuscirne non significa snobbare il mercato (Joyce stesso fu a suo modo un impresario di cinema, di teatro, di tessuti) ma svelarne la connivenza con l’asservimento della creatività a scopo di compiacimento, di assuefazione, di depistaggio. Il vero nuovo oppio dei popoli.

È dunque una fuga da questo intreccio di creazioni letterarie monetarizzate, che generano un oblio forzato della memoria culturale e soprattutto un livellamento omogeneizzante eterodiretto dell’immaginario. Tentare di non lasciarsene irretire comporta, per Frasca, la volontà di sfuggire al «terreno di coltura di ogni forma di fascismo».

Il linguaggio alato

Tanti autori tentarono così la carta della musica per staccarsene. Joyce e Nabokov, accomunati peraltro dal destino d’aver incoraggiato i propri figli a intraprendere la carriera operistica, tendono finemente verso i lidi della musicalità. Joyce suggerì perfino, al figlio, e in italiano, di dedicarsi anima e corpo al canto, perché «il canto è linguaggio alato». Non a caso, il volume di Frasca, che si conclude con un’intervista su arte e letteratura, include una conversazione sul romanzo e la musica in cui le partiture di Ulysses occupano uno dei fulcri.

In questo senso il messaggio, ovvero, l’epistola, la lettera che invia Frasca ai lettori supera e risolve l’apparente amaro pessimismo a cui sì accordano certe sue riflessioni, puntando sul potere non performativo ma permutativo dell’arte, perché: «abbiamo ancora bisogno di continuare a dettarci dentro il ritmo del senso del nostro stare al mondo. È il compito dell’arte, degenerata com’è sempre stata, armonizzare l’inorganico che ci tiene in vita. Non certo della letteratura, né del suo concetto fantasmatico di nazione».

 

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