Cultura

Le impronte e la memoria degli oggetti post catastrofe

Le impronte e la memoria degli oggetti post catastrofe

Scaffale «Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia» di Michele Ruol, per Terrarossa

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 29 maggio 2024

Che cosa si lascia alle spalle un’esistenza dismessa nell’impulso di scrollarsi di dosso una tragedia e il senso di colpa che lascia? È questo il punto di partenza dell’esordio romanzesco di Michele Ruol, già attivo come drammaturgo, pubblicato da Terrarossa. La collana è quella degli «sperimentali», e Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia (pp. 208, euro 16) ne onora il programma con un’architettura di eccentrica semplicità: due parti, intitolate «Casa» e «Automobile», suddivise nei rispettivi sottoluoghi – stanze, vani, parti – per ognuno dei quali a ogni capitolo corrisponde un oggetto che vi è contenuto, per un totale di novantanove. E gli oggetti, si sa, serbano una memoria silente che lo sguardo può ridestare.

QUI A FARLO è un narratore anonimo e impersonale che di primo acchito potrebbe ricordare persino il nouveau roman, ma l’esito è tutt’altro che algido. Gli ambienti si ravvivano infatti, pagina dopo pagina, di ciò che è stato: nella casa, diversi anni prima, vivevano Padre, Madre e i due figli Maggiore e Minore – prima che un incidente si portasse via questi ultimi. Lo scopriamo presto, fin dall’ingresso, attraverso il ricordo di un’ultima telefonata da un Sirio color avorio o dalla paraprassia di Madre in lutto che si scopre ad apparecchiare per una famiglia ancora integra.
Anonimi sono dunque anche i quattro, cui la narrazione accorda solo le iniziali maiuscole, con un effetto paradigmatico che va decantandosi quanto più le figure si imbevono di vissuto. La riuscita del romanzo sta proprio in questa torsione delle sue premesse cosali: ogni oggetto è pretesto per un attraversamento ordinato degli spazi, il che comporta però il rimescolio dei tempi; la cronologia è perciò revocata, ma la ricostruzione del passato famigliare è sorretta dal senso di esplorazione, che a ogni passo si arricchisce di un tassello: una giovane coppia cui piaceva viaggiare, l’arrivo di un figlio, le ansie che accompagnano il diventare genitore, e poi del secondo, cui segue un ritorno al lavoro di Madre tutt’altro che concordato; gli anni in cui educare con approcci differenti, Padre dedito al lavoro e al sostentamento, ma con episodiche felicità parentali, lei tesa a ripetere una severità che già fu di sua madre, e che non sa correggere; frattanto si riaprono squarci sull’incidente, sul «nuovo calendario» di vita che esso ha inaugurato, sul processo che ne è seguito, e sul lutto sopra ogni altra cosa, le declinazioni di un dolore insanabile che ognuno dei due genitori sperimenta a modo suo, con scismi, derive e ricongiungimenti. E tutto questo avviene in un’atmosfera che a ogni spazio bianco fra i brevi capitoli ritorna sospesa, poiché chi legge è conscio di muoversi in un luogo abbandonato e quasi post-catastrofico: la sera dell’incidente, infatti, un incendio ha arso una parte dei colli che cingono a sud la cittadina dove la vicenda è ambientata.

LA DISTRUZIONE BOSCHIVA, cui il titolo si appoggia, è dapprima analogia della devastazione interiore arrecata dalla perdita. Ma il tocco di Ruol fa sì che, grazie a un’abile calibratura dei dettagli, all’inventario si affianchino via via elementi di tensione drammatica, segreti e interrogativi – su tutti il perché la casa sia stata abbandonata, e quando, anche da Padre e Madre – che convergono verso il finale. Ci si arriva però solo dopo aver (ri)conosciuto quella commistione di gioia e di strazio che è la vita spezzata di un’ordinaria famiglia nucleare, e che già Beckett e Szymborska annunciavano in esergo affiancando luce e notte, «orribile mondo» e «mattini per cui valga la pena svegliarsi».

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