Le gru della Manciuria, Sun Yuan e Peng Yu
Intervista Incontro con Sun, che racconta il duo artistico cinese in esposizione al St. Regis Rome fino al 31 agosto
Intervista Incontro con Sun, che racconta il duo artistico cinese in esposizione al St. Regis Rome fino al 31 agosto
È la signora dai capelli bianchi (con gli occhi chiusi) che, sospesa in alto come un aquilone (vicino al lampadario di cristallo), nella sontuosa lobby dell’hotel The St. Regis Rome porta al guinzaglio la manta gigante o è l’animale acquatico di vetroresina a zavorrare la donna? L’opera è seduttiva, fiabesca e quanto mai inquietante, Sun Yuan (Pechino 1972) & Peng Yu (Heilongjiang 1974) – il duo artistico che l’ha firmata – ne è perfettamente consapevole.
If I Died è l’omaggio di Peng Yu alla sua mamma, le cui sembianze sono riprodotte nel silicone; nel video è la stessa donna ad esprimere il desiderio, mentre si rivolge alla videocamera da una stanza d’ospedale, che da morta le piacerebbe volare, innalzarsi sopra la terra insieme alle gru della Manciuria, quelle con la macchia rossa sul capo che popolano la pittura tradizionale dell’Estremo Oriente e che, al giorno d’oggi, in Cina sono tra le specie protette di primo grado. Un desiderio in parte esaudito nella messinscena spettacolare della mostra romana in cui la donna è circondata da uccelli (impagliati) di diverse specie che la accompagnano in questo volo metaforico. Per l’esposizione al The St. Regis Rome (fino al 31 agosto), realizzata in collaborazione con la galleria Continua, dove per la prima volta vengono esposte insieme le opere Teenager Teenager (2011), I didn’t notice what I am doing (2012) e la già citata If I Died (2013), l’urgenza è sempre quella di affrontare tematiche esistenziali. Gli artisti cinesi che lavorano insieme dalla metà degli anni ’90 (dopo aver studiato pittura alla Central Academy of Fine Arts di Pechino, città dove vivono tuttora) la declinano in uno stile visionario, paradossale, contraddittorio e provocatorio in cui l’essere vivente è costantemente al centro del vorticoso dilemma vita/morte, immanenza/trascendenza, conscio/inconscio, vero/falso, cielo/terra, passato/futuro. Un dialogo serrato che ci porta indietro all’era preistorica, a cui alludono le grandi sculture iperrealistiche di un rinoceronte e di un triceratopo, genere di dinosauro erbivoro vissuto circa 70 milioni di anni fa che nel contesto artistico appaiono come guardiani di un territorio in parte inesplorato, quello delle imprevedibili relazioni tra gli esseri viventi in relazione all’ambiente e alla macchina in un panorama globalizzato.
Adolescenti
Un percorso concettuale fatto di trappole e inciampi – tutto e il contrario di tutto – in cui l’osservatore è protagonista del processo di disvelamento, anche quando si aggira per la sala e il suo sguardo indugia sui dettagli degli abiti e degli accessori di lusso con cui sono agghindati i personaggi di Teenager Teenager, seduti su poltrone e sofà. Figure a grandezza naturale che si mimetizzano tra gli arredi, se non fosse per quelle «nuvole» giganti al posto delle loro teste. Veri (finti) macigni che sollecitano, neanche a dirlo, a certe visioni magrittiane. In questo caso al centro delle tensioni c’è il divario generazionale. «Utilizziamo ritratti di famiglia per rendere l’immagine della società.» – afferma Sun Yuan – «La gerarchia sociale è uguale a quella familiare. Ogni individuo ha un super ego e non comprende del tutto l’altro. Gli adolescenti sono ancora in grado di interagire tra loro però il loro destino, una volta diventati adulti, è quello di avere un masso sulla testa che blocca la loro possibilità di relazionarsi agli altri».
Il disco volante
Tematiche analoghe sono affrontate anche nelle opere presentate all’ultima Biennale d’arte di Venezia Dear (2015) e Can’t help myself (2016), dove il robot industriale umanizzato si muoveva «vezzosamente» all’interno di una grande teca facendo schizzare tutt’intorno un liquido vischioso simile al sangue. Dall’inizio del nuovo millennio Sun Yuan & Peng Yu si interessano di cibernetica, indagando come la funzionalità del cervello umano venga delegata ai dispositivi meccanici nel definire i confini di una diversa espressione di controllo/autocontrollo. «Prima dei robot abbiamo usato gli esseri viventi.» – continua l’artista – «Oggi siamo tutti più ossessionati rispetto a chi ha vissuto prima di noi, perché siamo più consapevoli e conosciamo più cose a livello fenomenologico. In assoluto, penso che l’uomo abbia più paura della morte. Per questo ne parliamo in maniera grottesca, esagerando e caricando l’argomento. L’ignoto – il futuro – è qualcosa che spaventa».
Ma per Du Wenda, contadino di Anhui nella provincia a nord est di Pechino, che nel 2005 Sun Yuan & Peng Yu hanno portato fisicamente alla Biennale di Venezia (era l’elemento centrale della mostra UFO, prima partecipazione nazionale della Repubblica Popolare Cina), l’idea di un futuro immanente non era affatto minaccioso, piuttosto coincideva con il desiderio (illusorio) di volare. «Avevamo visto in internet la notizia di un contadino che stava costruendo un disco volante. Non c’era molto altro, ma è bastato perché decidessimo di andare da lui per conoscerlo. Ricordo che il disco volante era al centro di un enorme campo, circondato da piante e ortaggi. Era ironico il modo in cui i contadini coltivassero delle verdure accanto a quello strumento così sofisticato, anche se non funzionante, associandolo alla contemplazione dei bellissimi fiori di yu-choy (varietà della famiglia delle crocifere, eccellente risorsa di vitamina A e C, molto usato nella cucina cinese – n.d.R.), che lo circondavano, poi cucinati e mangiati. Portare a Venezia Du Wenda e il suo disco volante era un modo per parlare dell’unicità di questo accadimento e dell’idea del progresso in una relazione più stretta con il mondo onirico: il desiderio molto semplice di volare di un contadino che pensa a soddisfare le necessità primarie piantando tutti i giorni le verdure. Malgrado Du Wenda abbia lavorato tanto perché il suo apparecchio funzionasse alla fine non c’è riuscito, però resta la sua riflessione ad andare oltre l’aspetto materiale». Ancora qualche parola sul tema della morte affrontato dagli artisti cinesi in Aquatic Wall (1998), una delle loro opere più controverse, dove sono stati impiegati circa 50 animali acquatici vivi (almeno lo erano al momento dell’installazione, sulle pareti della Tongdao gallery di Pechino e successivamente alla 5^ Biennale di Lione), un modo anche per confrontarsi con le contraddizioni insite nell’esercizio del potere.
La caccia
«La nostra installazione serviva per parlare anche della caccia, intesa come gioco di potere. Ad esempio la tradizionale caccia alle balene e ai delfini (grindadráp – n.d.R.) che, malgrado le proteste degli ambientalisti, si pratica ancora oggi in alcuni paesi scandinavi. Animali che l’uomo uccide non per bisogno, ma per il solo scopo di dimostrare il suo potere. Oggi preferiamo delegare all’azione del robot ciò che un tempo affidavano agli organismi viventi, come in Aquatic wall dove facevamo riferimento anche all’idea di freschezza del cibo che mangiamo. Trovo molto divertente come la percezione umana cambi di fronte ad un pesce vero, appeso morto ma comunque carne viva, da quella di un pesce fresco, ma morto, presentato nel piatto». Un altro aspetto della loro speculazione riguarda la realtà materiale del corpo fisico che, in un’opera come Body Link (la performance è del 2000), non è affatto in conflitto con quella intangibile della componente spirituale. «In quest’opera il nostro corpo è lo specchio del nostro spirito»: il video mostra i due artisti durante una trasfusione, mentre il sangue che viene tolto dai loro corpi va ad «irrorare» il cadavere (vero) di una coppia di gemelli siamesi. Una riflessione su come due persone separate possano intendersi in maniera intellettuale. «Si tratta di cadaveri utilizzati per sperimentazioni scientifiche e prestati temporaneamente all’arte. Le performance si sono svolte in quegli stessi luoghi, laboratori scientifici e di ricerca anatomica». Una forzatura che pone il gesto artistico sullo stesso piano dell’indagine scientifica. «Scioccare non è propriamente il termine che userei. Piuttosto, davanti alle nostre opere, nel cervello dello spettatore compare come uno schermo bianco e va in tilt. L’artista, nel rivolgersi alla società, utilizza semplicemente un linguaggio diverso da quello del filosofo».
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