Cultura

Le genealogie di Pollicino

Le genealogie di Pollicino

VALERIO MAGRELLI «Exfanzia», pubblicato da Einaudi, è l’ultima raccolta in versi del poeta, scrittore e traduttore romano. Ad aprire il libro un autoritratto di sé bambino. Un dialogo concreto con il passato, anche remoto. Dopo aver conosciuto il mondo, l’autore torna a coltivare la miniera dell’infanzia, ma lo fa osservandola ormai da lontano, dall’«ultima cima» che è la vecchiaia

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 16 aprile 2022

«Pollicino sognatore, sul mio cammino/ sgranavo rime. La mia locanda era l’Orsa Maggiore». Sono due versi tolti a una poesia del 1870, Ma bohème, nella quale un Arthur Rimbaud solo sedicenne levava il suo inno all’erranza, alla gioia della libertà. Un secolo più tardi, Andrea Zanzotto farà entrare lo stesso Pollicino prima nella sua Beltà (1968), e poi soprattutto in un sonetto del Galateo in Bosco (1978), nel quale il protagonista della fiaba si ritrova addirittura insieme a Ugo Foscolo e a Martin Heidegger. Erede di questa genealogia è ora il Pollicino che fa da nume tutelare all’ultima raccolta poetica di Valerio Magrelli, Exfanzia (Einaudi, pp. 125, euro 11,50) che si apre con una lunga sezione intitolata, appunto, Sotto la protezione di Pollicino, seguita da Quattro poemetti.

Già in Nature e venature (1987), del resto, il lettore di Magrelli incontrava dei versi che preannunciavano la presenza dell’eroe favoloso («Queste note nei giorni/ sono briciole/ per ritrovare il sentiero/ lungo il bosco degli anni./ Ma verranno i fringuelli/ a cancellare le tracce…»), che poi tornerà per esempio, in tutt’altra chiave (ne Il sangue amaro, 2014), in una poesia ispirata da una delle migliaia di persone scomparse sotto il crollo delle Torri Gemelle (e nel 2017 usciva infine la plaquette Pollicino quater, composta da Magrelli insieme all’artista Massimo Dagnino).

Il personaggio di Pollicino trascina con sé, in effetti, alcuni punti cardinali dell’immaginario di Magrelli. Anzitutto, il luogo che si desidera, la casa: «Voglio uscire da qui, voglio tornare a casa,/ perché ho capito che una casa esiste/ ed è quella da cui viene la musica» (così nel poemetto Creature di confine).

ALLA CASA questi versi tornano più volte, come in una serie di variazioni sul tema: ecco la casa dei primi anni, in una poesia per la sorella, che non a caso è la stessa poesia che dona il titolo al volume, Exfanzia. Oppure, ecco altre case riemerse dal passato, «le case che uno lascia: vuote voragini,/ nude, senza più oggetti», in una breve lirica senza titolo, che sembra una specie di calco vuoto o corollario di una sezione del già citato Nature e venature (nel libro del 1987, del resto, l’immagine della casa aveva una sua centralità, e La forma della casa era proprio il titolo della prima sezione).

Meno attratto dal vagare rispetto ai suoi antecedenti, meno sognatore e più ansioso, questo Pollicino ha soprattutto paura di sbagliare strada, timore di perdersi («Mi perdo, mi perdo, mi perdo:/ è tutta la vita che prendo la strada sbagliata»). Si potrebbe cominciare da qui per rileggere l’intera parabola di Magrelli attraverso queste coordinate fondamentali, il Chiuso e l’Aperto, il Dentro e il Fuori: lo spazio domestico, appunto – che nella sua astrattezza asciutta era già lo spazio fondamentale del libro d’esordio, Ora serrata retinae (1980) – contrapposto all’insicurezza del reale, alla sua fragilità («Sento il mondo corrompersi, disfarsi», diceva un verso delle Didascalie per la lettura di un giornale, forse non a caso affidato a un io lontano dai propri luoghi, «inviato» in Québec).

DOPO AVER CONOSCIUTO il mondo, dopo aver rivendicato anche il diritto alla cronaca o al risentimento o all’invettiva attraverso la poesia – basti pensare alle raccolte degli ultimi due decenni, dalle Didascalie al Sangue amaro – Pollicino torna a coltivare soprattutto la miniera dell’infanzia, ma lo fa osservandola ormai da lontano, diciamo dal lato opposto, dall’altra riva o dall’«ultima cima», insomma dalla vecchiaia. L’in-fanzia è capovolta in ex-fanzia: è un rovesciamento dello sguardo che sembra governare pressoché per intero questa nuova stazione del percorso magrelliano. Si può dire, in effetti, che qui Magrelli si guardi costantemente indietro: basterebbe aprire la prima poesia dell’insieme, che contiene un autoritratto di sé bambino intento a giocare a pallone, un testo che rinvia in questo caso alle prose brevi di Addio al calcio (2010).

MA IL DIALOGO CONCRETO con il proprio passato poetico può rinviare anche a capitoli più lontani della propria opera. Oltre al calcio, o ai rumori perennemente ascoltati, o alla scarsità della vena – ossessive costanti tematiche magrelliane – si può leggere il poemetto Navigare necesse est, vivere non est necesse, nel quale l’acqua è un elemento anche simbolico essenziale, ricordandosi di un più antico racconto incentrato sul nuoto (Rivelarmi al gelo, in Esercizi di tiptologia, 1992); la stessa parola-titolo, tiptologia, compare altrove, così come ritorna la valvola mitralica, già sfruttata in un morceau che è un pezzo da best of magrelliano, Porta Westfalica; una poesia sul pianto, con la sua nobile insegna virgiliana (Sunt lacrimae rerum), dialoga esplicitamente con un passaggio di Ora serrata retinae; e si potrebbe proseguire.

Ancora una volta la voce di Magrelli fa le sue concessioni al falsetto, al gioco verbale, all’esperimento (come in un omaggio a Marylin Monroe, o nella sequenza costruita, sul finire della raccolta, intorno a diverse serie tv, da Fargo a Breaking Bad). Ma a rimanere impressa è forse soprattutto la dimessa tristezza su cui sono imperniati diversi momenti del libro: si potrebbe dire che questo sia uno degli umori essenziali di questa scrittura, con la sua capacità di costruire una sorta di pathos del banale, della scena qualunque («Quando vedo i graffiti sui muretti/ lungo i binari che corrono via/ mi prende una pena infinita»; oppure, altrove: «Mentre stendevo i panni/ ho scritto tre poesie»; o l’attacco del primo dei poemetti conclusivi: «Quando guardo di sera la tv…»).

LO SI VEDE anche in una lirica che è fra i punti più alti di Exfanzia, intitolata È possibile uscire vivi dalla vecchiaia?, nella quale il soggetto, guardandosi allo specchio, si accorge che il ricordo del padre e della madre «abitano il volto/ «disputandoselo», un volto che diventa così il «teatro» dei due «amanti morti», dei genitori.
Ma il tema filiale risulta anche stavolta, come in passato, a doppia direzione: la paternità può essere anche assunta in prima persona dal soggetto, come nei due testi-gioiellini per i propri figli, entrambi scritti a partire dalla fotografia di una gita in montagna (eccone almeno uno: «La foto di mia figlia piccolina,/ col giaccone da sci,/ mi guarda e sembra dirmi:/ «che cosa devo fare?»/ Amore mio, non lo so,/ non lo sa nessuno./ Tu pensa solo a crescere,/ a essere felice./ Io piango da una parte/ perché non so risponderti»).

ANCHE IN UN ESEMPIO come questo, tuttavia, nel quale il proprio sguardo è vitalmente puntato verso chi viene dopo – verso i figli appunto, non i genitori scomparsi – sembra comunque entrare in gioco un qualche tipo di lavoro del lutto. Questo tocco di provvisorietà, questo retrogusto amaro – che si cominciava ad avvertire almeno con le quartine di Children’s corner (1992) – fa spiccare le liriche dedicate al cerchio familiare: la vera carta vincente e la più originale del Magrelli maturo, soprattutto da Geologia di un padre (2013) in su. Bambino invecchiato, Pollicino continua a cercare Casa, sia pure camminando sui suoi «souliers blessés»: sia pure sapendo che Casa significa anche ferita, perdita, malinconia.

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