Visioni

Le finestre degli altri, lato strada

Le finestre degli altri, lato stradaRachel Witherhead, Modern Chess, 2005

Cronache d'estate Guardando al di là della via si scoprono abitudini orari, gusti e persino qualità dei rapporti che tengono insieme famiglie e persone

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 12 agosto 2016

Le tende alle finestre non mi sono ma piaciute, le trovo indispensabili solo per difendere la privacy in certe stanze. Chiudono la vista e tolgono luce. Se nei paesi nordici quasi non le usano, vuol dire che per tante persone il rapporto con il fuori è più importante che chiudersi dentro. Per fortuna molti dei miei dirimpettai che vivono dall’altra parte della strada la pensano come me, quindi ci forniamo una specie di reciproco cinema del quotidiano. Certo, a volte è un po’ come stare in vetrina, e per evitare derive guardone o esibizioniste è bene ricordarsi che il momento peggiore è la sera, quando il buio fuori e la luce dentro rendono l’interno casa come uno schermo aperto.
Negli anni, guardando al di là della strada ogni tanto, ho imparato a conoscere abitudini, orari, composizione, gusti e persino la qualità o l’evoluzione dei rapporti che tengono insieme famiglie e persone. I palazzi su cui ho l’affaccio sono due, i civici 18 e 20. Di edilizia civile senza pretese, il primo ha quattro piani e il secondo tre. Essendo ogni piano diviso in due appartamenti, in totale fanno 14 abitazioni. Non in tutte c’è vita evidente, e questo spiega perché mi è impossibile seguire umilmente le orme e lo schema di George Perec nel suo La vita istruzioni per l’uso. Farò quindi qualche salto di piano.

Civico 18 Piano primo.

Abitato da una famiglia di peruviani. Marito e moglie con due figlie, una di 5 anni l’altra di 12 circa, due gatti, uno rosso e l’altro bianco e nero. La confusione in casa è perenne. Nel soggiorno cucina ci sono un divano e una poltrona rossa che viene continuamente spostata per far spazio ai giochi della piccola o ai balletti della più grande. Fanno di norma due lavatrici al giorno e stendono la biancheria sul piccolo balcone. O meglio, più che stendere buttano sui fili, come viene viene, magliette, pantaloni, pigiami, mutande e lenzuola nello stesso groviglio con cui la biancheria esce dal cestello. Si vede che in Perù si usa così. Alle finestre si affacciano solo tre componenti della famiglia: la figlia più piccola che guarda in su con gli occhi stupiti e la bocca rotonda, e i due gatti, di cui uno resta regolarmente chiuso sul balcone per sbaglio. L’altro, evidentemente più pigro, preferisce il davanzale della camera da letto. C’è stato un periodo in cui ogni sabato sera tenevano una festa e allora sembrava di essere a Copacabana: musica sudamericana a manetta, risate, balli, brindisi, cibo, grida felici. Poi qualche condomino deve essersi lamentato e hanno smesso. Ora si limitano a guardare la televisione. Uno spreco.

Piano secondo

Coppia in pensione con figlio quarantenne che, nella speranza di piacere a qualcuno, alcuni anni fa perse 20 chili, ma anche molti capelli.. Di mestiere fa l’amministratore di condominio in uno studio associato, ma lui non è fra i soci. Con il tempo è riuscito a prendere in gestione il palazzo dove vive, ma neanche lì riesce a liberarsi di mamma che lo segue alle riunioni e gli fa da segretaria e suggeritrice. Vivendo ancora ancora con mamma e papà, il bamboccione dorme ancora nella cameretta che occupava da bambino e alle pareti ha ancora appesi gli stessi poster di allora: L’uomo ragno, Superman, Batman. Fuma, ma non gli è permesso farlo in casa, per cui ogni dieci minuti va sul balcone dove ha il suo portacenere. Che sia inverno o estate, si mette il cappotto e sta lì, a tirare famelico guardando di sghimbescio a destra e sinistra. Nel frattempo, dietro di lui, nel soggiorno, si vedono i piedi dei genitori stesi sull’allungo del divano a guardare la televisione. Il padre in estate indossa braghette e calzini infilati nelle ciabatte, la madre gira in sottoveste chiara con bordi di pizzo. Nessuno gli ha spiegato che un po’ di stile non ha mai fatto male a nessuno, soprattutto nell’intimità.

Piano terzo

È il mio appartamento preferito perché lì vive una architetta che ama stare in casa in deshabillé coordinato. Ne ha una collezione: completi color malva bordati di pizzo blu, di raso rosa cipria, di tulle nero, di pizzo rosso. Li mette anche quando deve tirare la Hoover o spolverare, anzi soprattutto quando deve fare i mestieri, come se gli elettrodomestici avessero del testosterone da stimolare. Quando esce dal bagno, va in giro per casa così come mamma l’ha fatta, fregandosene se qualcuno vede le sue tettone al vento, ma sospetto lo faccia apposta. Lei e il suo compagno hanno dipinto la camera da letto di rosso pompeiano e c’è stato un tempo in cui d’estate tutta la via sentiva i loro gemiti di piacere. Poi o hanno smesso di fare rumore o hanno smesso del tutto di praticare, perché non si sente più nulla ed è davvero un peccato, per loro e per noi. Quell’appartamento, comunque, deve avere un’energia stimolante perché, prima di loro, era abitato da un giovane uomo che, di tanto in tanto, la mattina appena sveglio usciva sul balcone in boxer, e con tutto l’ambaradàn sottostante in pieno rigoglio.

Piano terzo lato destro

Coppia di medici (me lo ha detto l’architetta che ho conosciuto al super sotto casa) con due figli, maschio e femmina, lui di circa 8 anni e lei di 14. Cenano sempre alle 19.30, sotto un lampadario rosso che irradia una luce da sala operatoria. Sulla parete c’è un manifesto di Easy Rider, testimonianza di qualche passione giovanile mal riposta di lui che, sempre secondo l’architetta e il suo compagno che sentono i loro discorsi al di là della parete sottile: «È una pippa galattica. Un uomo di una noia mortale che ogni sera propina pistolotti all’intera famiglia». La moglie, esile e bionda, ogni sera sogna una vita diversa fumando una sigaretta affacciata alla finestra aperta della cucina, per non lasciare odore in casa. È l’unico momento che si ritaglia per sé, per il resto è tutto un alzarsi all’alba, cucinare, sparecchiare, lavare. Ai compiti dei figli pensa lui che li interroga dopo cena, in cucina, lui che deambula con il libro davanti e il figlio di turno che ripete la lezione seduto.

Piano quarto

Praticamente un mortorio. A destra le imposte sono sempre serrate, segno che non ci vive nessuno. A sinistra abita una coppia di anziani che non apre mai le finestre e, quando lo fa, si vede solo lui che sbatte lo straccio della polvere o la tovaglia. Lei compare sul balcone una volta all’anno. Lui è cardiopatico, sempre secondo la mia informatrice architetta del terzo piano, e una volta ha rischiato di crepare sul marciapiede di fronte al portone perché un giovinastro lo aveva chiamato «Vecchio rincoglionito». L’ascensore nel palazzo lo hanno messo apposta per lui, ma chiamarlo ascensore è un eufemismo. Trattasi di trapezio largo come un box doccia e che è usabile solo da chi ha la chiave. Lo so perché una volta sono andata a prendere il caffè dall’architetta in guepière.

Civico 20 Piano primo

Ci vive da sola una ragazza di circa 30 anni che passa tutto il suo tempo libero nel soggiorno con angolo cottura. Al tavolo non si siede mai perché vive praticamente sul divano color aviatore. Sprofonda fra i cuscini, appoggia i piedi sul tavolino davanti e mangia guardando la televisione. Il sabato sera non esce mai perché lo trascorre in casa, in pigiama, stravaccata, spettinata, mangiando schifezze e passando dalla tv al computer al cellulare. Praticamente un’ameba sociale.

Piano secondo

Sul balconcino ci sono vasi con margherite, un geranio, una lantana striminziti come la loro proprietaria accudente, una signora anzianissima che vive lì sola con un cane, uno dei cani più brutti e docili che abbia mai visto, con un pelo ispido di tre o quattro colori, le orecchie e il muso lunghi, le zampe corte, la coda da maiale e ormai quasi cieco. Un tempo la si vedeva verso le sei di sera fare il giro dell’isolato con lui al guinzaglio. A metà percorso incontrava una sua coetanea con altrettanto cane multirazza, e stavano lì a chiacchierare anche per un’ora intera, che fosse estate o inverno. Poi un giorno l’ho vista ferma in strada che piangeva e una giovane donna la consolava. La sua amica non si è più vista e dopo un po’ anche lei ha cominciato a girare di meno. La sera, nel suo soggiorno una lampadario debole e cimiteriale getta una luce smorta sulle pareti foderate di carta da parati giallo sporco, su mobili di legno scuro e con qualche voluta, su qualche fotografia in bianco e nero appesa alle pareti, su tendine di pizzo sintetico ingiallite. Essendo io e lei allo stesso piano, spero che le luci delle mie stanze ogni tanto le trasmettano un briciolo di allegria.

Piano terzo 

Qui c’è la baraonda a intermittenza. Ci abita un circa 40enne da solo che esce con moderazione e invita molto. Ama il design e gli spazi sgombri, e infatti il suo soggiorno doppio ha pareti grigie, mobili color elefante, luci firmate e ben posizionate nelle diverse zone, un tavolo e un divano essenziali, parquet. Quando è da solo continua a vagare da una stanza all’altra, come un’anima in pena. Quando è con amici o con una fiamma di turno sbrocca di brutto. Una sera aveva invitato una con la quale deve aver assunto qualche sostanza iper eccitante, tant’è che a mezzanotte hanno messo la musica al massimo e hanno cominciato a gridare frasi incomprensibili e a ballare fino all’alba. La mattina dopo il pavimento era pieno di bottiglie di birra. È stata la sua unica notte di follia, per quanto ne so io che, vivendo metà della vita con la valigia in mano, non ho il polso costante della situazione. Molto più nella norma, sebbene sempre alcoliche, sono le serate che organizza in occasione di qualche partita di calcio. Allora lì vedi quasi solo maschi che gridano, esultano, si disperano, si alzano, si accasciano e via, con tutta la gamma di esternazioni tipiche del tifo. Tutto sommato una vita normale, come direbbero coloro che usano ancora, e con ostinazione, la parola normale.

(2- continua)

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