Le filiere spezzate da delocalizzazione e vuoto europeo
Economia/virus Il contrasto su quanti e quali debbano essere i settori produttivi da lasciare attivi richiama la contraddizione tra l’esigenza di abbassare il rischio di contagio da coronavirus che spinge a […]
Economia/virus Il contrasto su quanti e quali debbano essere i settori produttivi da lasciare attivi richiama la contraddizione tra l’esigenza di abbassare il rischio di contagio da coronavirus che spinge a […]
Il contrasto su quanti e quali debbano essere i settori produttivi da lasciare attivi richiama la contraddizione tra l’esigenza di abbassare il rischio di contagio da coronavirus che spinge a contenere gli spostamenti delle persone cioè, in questo caso, dei lavoratori, e la necessità di approvvigionare la popolazione con beni primari che richiede non solo che essi vengano prodotti ma che lo siano anche tutti gli input necessari ad ottenere quei beni e servizi.
Questo implica che rimangano in attività molti altri settori apparentemente lontani dalle filiere alimentare e sanitaria; si pensi ai trasporti, all’energia, ai materiali d’imballaggio, ai macchinari (e ai pezzi di ricambio e ai servizi di riparazione) utilizzati.
È evidente che questa contraddizione sarebbe tanto più risolvibile se si riuscisse ad organizzare i processi produttivi in condizione di sicurezza dei lavoratori. Ma la contraddizione è resa più acuta proprio dall’organizzazione produttiva fondata sulla scomposizione dei processi produttivi e la loro frammentazione in territori diversi, anche in paesi tra loro lontani.
QUESTA DELOCALIZZAZIONE è stata guidata dall’obiettivo di ridurre i costi di produzione, accrescendo la concorrenza tra i lavoratori di tutto il mondo e spingendo i salari verso i livelli più bassi che sono quelli dei paesi dove anche i servizi di welfare (istruzione, sanità, pensioni, ammortizzatori sociali, servizi abitativi, interventi assistenziali e di contrasto alla povertà) sono più contenuti.
Il dumping sociale e la corsa al ribasso delle condizioni economico-sociali sono stati alimentati dalla globalizzazione non governata, con la contrazione della partecipazione delle istituzioni collettive alle decisioni produttive e sociali, assoggettate alla logica individuale dei mercati svincolati dall’interazione con gli interventi pubblici i quali, invece, sono stati confinati a livello nazionale o sub nazionale per il contemporaneo rilancio delle istanze di decentramento regionale.
IL CONFRONTO che spesso viene fatto con l’approccio cinese alla lotta al coronavirus evoca il fatto che le democrazie occidentali sarebbero meno attrezzate del sistema politico cinese per contrastare fenomeni come i contagi virali. La differenza in questo caso più rilevante non è tanto tra regimi più o meno democratici (che, naturalmente, rimane ed è importantissima), ma tra la possibilità di far valere più o meno gli interessi della collettività e di tutti gli individui che la compongono, rispetto a quelli di parte.
Il rispetto e la valorizzazione degli interessi della collettività e, a tal fine, il coordinamento istituzionale delle iniziative individuali espresse nei mercati non implica regimi dittatoriali, ma un efficace interrelazione stato-mercato e il coordinamento tra i territori che, purtroppo, nei passati decenni sono stati negletti.
La seconda questione da tener presente nel confronto dell’esperienza italiana e di ciascun paese europeo rispetto a quella cinese è che l’isolamento di Wuhan e della regione dell’Hubei, pur riguardante un numero di abitanti simile a quello italiano e dei principali paesi europei, è stato fatto in un paese di circa 1 miliardo e 400 milioni persone, cioè 23 volte più grande.
IL BLOCCO ANCHE delle attività produttive di quella regione cinese è stato facilitato dal fatto che il resto del sistema economico cinese continuava a funzionare regolarmente e compensava l’arresto completo delle attività in quella «piccola» regione.
Invece, in Italia – e in ciascun paese europeo – il blocco del sistema produttivo riguarda la totalità del territorio nazionale e, per di più, opera in un contesto europeo che non è quello di una colletttività organizzata in una entità istituzionale capace di interagire efficacemente con il suo intero sistema economico-produttivo.
In Europa, invece, oltre alle prime incredibili reazioni della Bce che si è dichiarata estranea alle differenze dei tassi d’interesse nell’Area Eur, abbiamo assistito al blocco protezionistico di paesi contro altri, anche per rifornimenti sanitari ordinati e pagati. La logica di mercato ha fatto sì, ad esempio, che mezzo milione di tamponi prodotti nella regione di massimo contagio, Brescia, dove era molto urgente impiegarli, siano stati venduti ed esportati in un altro continente dove ancora il virus non era ancora molto diffuso.
TRA GLI «EFFETTI collaterali» del coronavirus c’è che, in poche settimane, sta dimostrando direttamente all’opinione pubblica – più efficacemente di quanto hanno potuto decenni di posizioni critiche – la portata e le conseguenze degli squilibri economico-sociali. La pandemia fa risaltare la necessità urgente di un riequilibrio dei rapporti stato-mercato e, in Europa, di abbandonare l’approccio finora seguito nel suo processo unitario fondato su ideologie e idiosincrasie nazionali, ostacolando la possibilità di avere una istituzione unitaria in grado di affrontare la nuova fase storica la quale prospetta una deglobalizzazione disordinata che accentuerà i limiti dei mercati peggiorati dai protezionismi nazionalistici.
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