Cultura

Le ferite e le avventure di un nomade della lingua

«Cannone in azione» di Gino Severini, dalla mostra «Notturni d’Arte: la guerra secondo i Futuristi»«Cannone in azione» di Gino Severini, dalla mostra «Notturni d’Arte: la guerra secondo i Futuristi»

Scaffale Blaise Cendrars, «Ho ucciso. Ho sanguinato», per Marietti 1820. Nei racconti, le esperienze al fronte dell’autore e l’eco dell’orrore della Grande Guerra

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 31 maggio 2024

Uno dei libri più celebri di Blaise Cendrars (1887-1961), pseudonimo di Frédéric Louis Sauser, si intitola La mano mozza e racconta l’esperienza al fronte del poeta svizzero naturalizzato francese, culminata con l’amputazione del braccio destro, avvenuta il 15 settembre 1915, a causa di una scheggia di granata. Cendrars dovette imparare a scrivere con la mano sinistra e rifiutò di rimpiazzare l’arto mancante con una protesi offertagli da Maurice Barrès.

Si era affermato con i versi di Les Pâques à New York (1912) e La prose du Transsibérien et de la Petite Jeanne de France (1913), storico leporello magnificamente illustrato da Sonia Delaunay che, una volta aperto, misura due metri. Questi titoli, con i più tardi Dix-neuf poèmes élastiques (1919), sovvertirono i canoni della lirica novecentesca francese, avvicinandoli al modernismo figurativo di Léger, Modigliani e Picasso.

QUASI UN CORRISPETTIVO verbale della simultaneità e della scomposizione della figura operata in quegli anni dai cubisti. Tuttavia la sua inquietudine, il suo essere fiero di un isolamento e di un nomadismo fortemente invisi alle direttive propugnate dalle coeve avanguardie ne fecero il paladino di una libertà individuale di ascendenza nichilista, irriducibile a ogni compromesso.

La Main coupée uscì, dopo varie vicissitudini e stesure, soltanto nel 1946 presso l’editore Denoël. Vedono la luce ora, con valida traduzione di Francesco Pilastro, due racconti intitolati Ho ucciso. Ho sanguinato (Marietti 1820, pp. 96, euro 12) che costituiscono l’ideale pendant di quel romanzo. L’avventuriero Cendrars espone attraverso una prosa vertiginosa, sincopata, che sembra prefigurare gli esiti radicali e allucinati di Céline, la storia dell’uccisione di un soldato tedesco e dell’agonia di un commilitone martoriato da plurime ferite.

Il racconto J’ai tué, composto a Nizza all’inizio del 1918, venne originariamente pubblicato l’anno successivo in un volumetto delle Éditions Georges Crés et C. che presentava in antiporta un ritratto dell’autore eseguito dall’amico Fernand Léger.

NELLA SUA NOTA DI LETTURA Paolo Rumiz mette in risalto la differenza di atteggiamento che caratterizza Nelle tempeste d’acciaio di Jünger e le descrizioni dei combattimenti allestite dall’autore di Bourlinguer. Mentre lo scrittore tedesco non «mostra mai derisione e tanto meno odio nei confronti del nemico», Cendrars non riserva ai boches alcuna pietà o senso di condivisione. Avvalendosi di un linguaggio gergale (indispensabile il glossario approntato da Giacomo Bollini in calce al volumetto), il narratore descrive in questo primo, folgorante racconto un episodio che lo vede protagonista di uno scontro all’arma bianca, in cui fa ricorso a un eustache, tipico coltellino da tasca francese. Cendrars utilizza al riguardo uno stile ellittico, immediato, di taglio cinematografico: «Mi getto sul mio antagonista. Gli sferro un colpo terribile. La testa è quasi andata. Ho ucciso il crucco. Sono stato più vivo, più rapido di lui. Più diretto. Ho colpito per primo. Ho il senso della realtà, io, poeta. Ho agito. Ho ucciso. Come chi vuole vivere».

Il secondo racconto, J’ai saigné, sempre di stampo autobiografico, è tratto dalla raccolta La Vie dangereuse, pubblicata nel 1938 da Grasset e sembra formare con l’antecedente un significativo dittico sulla Grande Guerra. Qui si descrivono, con senso della pietas mai disgiunto da una sottile venatura ironica, le vicissitudini di un moribondo durante il periodo di convalescenza di Cendrars in una struttura ospedaliera improvvisata, sita nelle retrovie di Chalôns-sur-Marne. Questo giovane doveva sottoporsi quotidianamente all’estrazione di «72 tamponi da 72 piaghe profonde», con sofferenze inenarrabili. Si distingue in tale operazione la capo-infermiera Madame Adrienne che, con materno spirito di abnegazione, si presta alle mansioni più umilianti pur di sollevare il morale ai feriti. Sarà un rinomato medico, dall’emblematico nome di Dufossé, durante una fatidica quanto macchiettistica ispezione in cui esegue un maldestro lavoro di ripulitura delle ferite, a porre involontariamente fine all’agonia di quel disgraziato.

DA TALE NEMESI scaturisce, per una strana legge di compensazione, la ripresa dell’autore che, con l’ausilio di una sola mano, si esercita nel pugilato e fa il giocoliere con le arance.

Nel finale il misogino Cendrars (si veda il controverso romanzo Moravagine, in parte ispirato alle vicende di Adolf Wölfli, artista geniale ma sessualmente deviato, che diventerà uno dei capisaldi dell’art brut teorizzato da Dubuffet) invita la capo-infermiera ad accennare a qualche passo di danza, sussurrandole all’orecchio parole di ringraziamento anche a nome dei suoi sfortunati compagni.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento