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Le élite culturali allergiche alla critica della globalizzazione

Lascia qualche perplessità l’atteggiamento delle principali élites culturali del Paese di fronte agli effetti della crisi. Prendiamo ad esempio l’editoriale di Angelo Panebianco (Corriere della Sera, 11 dicembre), dal titolo […]

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 16 dicembre 2017

Lascia qualche perplessità l’atteggiamento delle principali élites culturali del Paese di fronte agli effetti della crisi. Prendiamo ad esempio l’editoriale di Angelo Panebianco (Corriere della Sera, 11 dicembre), dal titolo «Il mercato e quel bacino di ostilità». Titolo che poi diventa nella “girata” nella pagina interna un esplicito, «Quella ostilità per la democrazia liberale».

Panebianco sostiene «che i 5 Stelle raggiungono per lo meno nei sondaggi, più o meno la stessa percentuale di consensi che era propria del Partito comunista all’epoca della cosiddetta Prima Repubblica. Vero, una cosa sono le intenzioni di voto e un’altra sono i voti ma, tenendo conto del fatto che spesso i partiti antisistema sono sottorappresentati nei sondaggi, il sospetto è che, proprio come ai tempi del Pci, ci sia grosso modo un terzo degli italiani disponibile a votare per un partito programmaticamente ostile alla democrazia liberale». Secondo Panebianco, questo dato confermerebbe la perdurante presenza nella storia politica italiana di un forte consenso verso «partiti e gruppi illiberali». Circa la stessa percentuale degli anni Sessanta.

Si può obiettare che la struttura del voto per il Pci e quella per il M5S è molto differente: le analisi politico-territoriali ci ricordano che il forziere dei voti per il Pci erano le zone “rosse” dell’Italia di mezzo, in cui i partiti di sinistra hanno ceduto solo in parte il consenso ai pentastellati (cfr. M. Almagisti, Una democrazia possibile, Carocci, 2016). Tuttavia, ciò che più non ci convince dell’analisi di Panebianco è la correlazione fra voto a partiti anti establishment e avversione alla democrazia liberale. Forze anti establishment esistono anche altrove. Podemos e Syriza sono neo-formazioni di sinistra, radicali ma per nulla estremiste, non hanno mai contestato le procedure della democrazia liberale. Non vorremmo che venisse identificato quale ostile alla democrazia liberale chiunque avanzasse proposte alternative riguardo alla ‘deregolamentazione’ dei mercati. Tanto più che, in questi anni, abbiamo conosciuto candidati navigati e anticonformisti, quali Jeremy Corbin e Bernie Sanders, che hanno costruito un forte consenso popolare, conquistando il cuore soprattutto dei giovani, grazie al rilancio del tema della giustizia sociale e alla critica della gestione della crisi da parte delle classi dirigenti.

Che stia anche nella scelta di articolare posizioni critiche parte della spiegazione del successo del Movimento cinque stelle? Proprio sul supplemento culturale del Corriere, La Lettura del 10 dicembre, Robert Peston provava a indicare la via per comprendere la scelta pro-Brexit compiuta da parte consistente della working class britannica nell’esposizione agli effetti della globalizzazione, aggiungendo: «Mi preoccupa che i membri dell’élite liberale non abbiano riconosciuto l’importanza del cambiamento. E più i membri di quella élite, come Tony Blair, dicono alla gente che ha sbagliato a votare per la Brexit, meno è probabile che la gente concluderà che ha sbagliato».

La questione è particolarmente delicata per la sinistra, in particolare per i partiti dell’Internazionale socialista, che negli anni Novanta hanno interiorizzato le posizioni globaliste e neo-liberali. Il rischio è quello di lasciare il monopolio della critica dell’esistente a Donald Trump e ai suoi molti emuli. Proprio per questo, riteniamo vitale per la sinistra l’elaborazione di un pensiero critico rivolto agli effetti della globalizzazione, non lasciando alla destra radicale la protesta e il richiamo all’importanza delle protezioni collettive rispetto agli effetti disgreganti del mercato.

Solo così si potrà evitare l’incubo evocato da Slavoj Zizek (The Indipendent, dicembre), ossia un destino di “voto utile” per un candidato “civilizzato”, in quanto garantito dal capitalismo globalizzato, contro il pericolo neo-fascista. Ossia un’accettazione supina delle iniquità della globalizzazione quale male minore. C’è bisogno di un’altra strada, che ponga il tema della giustizia sociale, rivitalizzi la partecipazione e restituisca alla democrazia piena capacità attrattiva.

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