Le eco-coltivazioni di «Una garlanda»
Vietnam? Costa d’Avorio? Caraibi? No. Lo scorcio di paesaggio con la rotonda casetta di paglia-argilla-calce e il grande stagno abitato da erbe palustri e testuggini, in mezzo a distese di riso verde brillante, si trova a Rovasenda, nell’azienda agricola Una Garlanda della famiglia Stocchi – tre famiglie in realtà.
UNA GALLINELLA D’ACQUA si avvicina alla casetta, che Mara Stocchi di Una Garlanda spiega così: «È il sogno realizzato di mio fratello. Sono stati usati solo materiali del posto, a chilometro zero, recuperando tecniche anticamente in uso qui». Suggestive le travi sistemate a spirale, nel tetto a cono.
«LO STAGNO OASI EMYS, invece, era il mio sogno. Due anni fa abbiamo scavato un pezzo di risaia e l’abbiamo popolata di piante palustri, introducendo poi esemplari dell’unica testuggine palustre italiana rimasta, ma in via di estinzione, la Emys orbicularis. Vogliamo anche studiare l’effetto di fitodepurazione legato alle specie vegetali dell’oasi».
ECO-COLTIVAZIONI IMMERSE nella biodiversità. Questa convivenza è un principio guida per Una Garlanda e per l’associazione Polyculturae, «che riunisce diversi agricoltori impegnati a produrre cibo ricreando un equilibrio naturale», spiega Mara camminando sulle piste di terra battuta rialzate fra un campo e l’altro. Risaie in agroforestazione, quelle di Una Garlanda: per ricreare l’ambiente originario, tantissimi alberi, arbusti e cespugli autoctoni sono stati piantumati sia in mezzo alle risaie, in filari sopraelevati, sia sui bordi. Ecco luoghi adatti anche a diversi incontri culturali e colturali che vedono la presenza di consumatori, studiosi e cittadini interessati.
LA BARAGGIA – LA «SAVANA DEL PIEMONTE» per via delle distese di alte erbe secche o verdi a seconda della stagione, sulle terre rosse, era ricca di boschi e paludi. Difficile da coltivare, veniva definita «area priva di sussistenza, rispetto alle zone da sempre risicole nel vercellese e nel novarese», ricorda Fulvio Stocchi, padre di Mara e Ugo. La sua famiglia,trasferitasi qui da Bergamo, iniziò a coltivare il riso nel 1938. La Baraggia ha mantenuto molta della diversità vegetale originaria solo nelle riserve. Nelle zone di colonizzazione concimi e diserbanti hanno al tempo stesso aumentato le rese e causato sconvolgimenti.
LA COLTIVAZIONE BIOLOGICA del riso è il salto che Una Garlanda (si chiama così dal 2016) ha compiuto più di due decenni fa. Una malattia in famiglia, insieme all’osservazione attenta dell’ambiente di risaia, fanno capire l’importanza di lasciare del tutto da parte la «schiavitù» della chimica di sintesi. Già, ma come fare contro le erbe infestanti? E come nutrire le colture visto che non si usa nemmeno il letame?
PACCIAMATURA VERDE: ecco la soluzione. Verso la fine di agosto, nelle future distese a riso si semina il prato di erbe miste (loietto, veccia, segale e altre specie). In primavera si entra con il trattore e i chicchi di riso vengono sparpagliati (a imitazione dell’antico gesto del seminatore) sull’erba non tagliata. Poi, si schiaccia il manto verde; subito nella risaia si immette l’acqua dai canali. Il riso, pianta palustre, trova le condizioni adatte per germogliare e farsi largo, fino alla raccolta a settembre. La pacciamatura, spiega Mara, «è un diserbo naturale perché ostacola le infestanti – noi le chiamiamo erbe commensali. E, decomponendosi, regala sostanze alla risaia».
LA ROTAZIONE È L’ALTRO PRINCIPIO: «I nostri terreni vengono destinati un anno a riso, l’anno successivo a miglio o a fagioli con l’occhio, o a erbai misti realizzati sempre con i nostri semi». Spuntate da poco su alcuni appezzamenti, le piantine di miglio, un cereale nutriente e molto rustico – gli basta poca acqua quando deve nascere.
LA CHIUSURA DELLA FILIERA AIUTA. Rispetto alla risicoltura convenzionale le rese sono un po’ più basse, ma si risparmia in concimi ed erbicidi e si evita di svendere il riso, a cui invece viene riconosciuto il giusto prezzo. Andrebbero remunerati anche i servizi ecosistemici che una coltivazione veramente ecologica garantisce. Inoltre Una Garlanda controlla tutta la filiera: ha recuperato macchinari suggestivi che sono quasi archeologia industriale ma che riadattati funzionano benissimo come «pileria» aziendale. Così il risone viene lavorato in autonomia, anche per piccole partite all’occorrenza. Ecco la sequenza, certificata dal seme fino al piatto: pacciamatura, semina, schiacciamento delle erbe, raccolta del riso con mietitrebbia, essiccazione, sbramatura dalla lolla e decorticazione dalla pula (che rende il riso da integrale a semintegrale; la polverina color crema che se ne ricava è un vero e utile super-food); separazione dei chicchi rotti, destinati a sottoprodotti; insaccamento e trattamento naturale antiparassiti con anidride carbonica; confezionamento in sacchetti in carta – niente plastica; vendita nello spaccio aziendale, o a gruppi d’acquisto, o e-commerce, oltre a negozi e ristoranti.
HANNO FATTO SCUOLA. Molti risicoltori da diverse parti d’Italia si sono incuriositi e avvicinati. In quel di Rovasenda è nato due anni fa il bio-distretto del riso. Ed ecco il campo sementiero di Una Garlanda, nato per tutelare antiche varietà e permettere agli agricoltori di avere anche il seme biologico, che ha una marcia in più: hanno reiscritto e sono conservatori ufficiali di otto varietà rustiche e custodi di tante altre, capaci di resilienza alla siccità e ai cambiamenti climatici.
IL RISO È INCOMPATIBILE CON LA SICCITÀ? Spiegano a Una Garlanda: «Bisogna rallentare il più possibile il deflusso dell’acqua – poca o tanta – che scende dalla montagna. Le risaie appunto la trattengono; in più con la percolazione si aiutano le risorse idriche sotterranee. I tre fattori che anche l’anno scorso ci hanno permesso di avere un buon raccolto sono stati: la terra argillosa – una specie di scodella; l’utilizzo della pacciamatura – che trattiene l’umidità; i semi antichi abituati a cavarsela – generando un apparato radicale potentissimo».
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