Schubert e Skrjabin vivono entrambi l’esperienza di chiudere con la loro musica un secolo e aprirne un altro. Sarà per questo che Arkadi Volodos ha voluto farceli ascoltare, a Santa Cecilia, l’uno dopo l’altro e cominciando proprio dal più recente, Skrjabin. Una lunga carrellata per tutta la sua opera, dagli inizi di fine Ottocento, alle esperienze del primo Novecento che precedono la Guerra Mondiale e la Rivoluzione Russa.

SCHUBERT È DI FATTO un contemporaneo di Beethoven, anche se essendo più giovane di 27 anni è di una generazione successiva. Pur partendo dalle stesse esperienze musicali, è sorprendente come s’incamminasse per una via totalmente diversa: Haydn – più di Mozart – è per entrambi un modello di pensiero musicale; ma in maniera diversa.
A Beethoven interessa la capacità di sviluppare un discorso musicale partendo da elementi minimi: un intervallo, un ritmo. Schubert ha un’invenzione essenzialmente melodica e ama dilungarsi nell’accarezzamento di una melodia. Ma proprio per questo la libertà delle combinazioni armoniche gioca un ruolo preponderante. E Haydn ne è maestro insuperabile, per esempio nello sfruttare i contrasti modali, dai quali tutta la musica di Schubert sembra quasi stregata. In Haydin e Beethoven sono tasselli di una costruzione che tende alla concentrazione, alla sintesi, in Schubert sono il pretesto per divagazioni che si perdono all’infinito.Raffinatissimo lettore della partitura, rende le sue voci intellegibili
La Sonata in la minore D. 845, con la quale Volodos ha chiuso il concerto, ne è un esempio mirabile, un viaggio nell’imprevedibilità del pensiero musicale in quanto specchio dell’imprevedibilità della vita. Andrebbe fatta leggere, ascoltare e riascoltare, a tutti coloro che restano fissati allo schema scolastico di sonata (inesistente nella realtà, nessuna sonata corrisponde allo schema) così come anche l’op. 101 di Beethoven.
Schubert sembra indagare, spostandosi da un campo armonico all’altro, come un canto possa illustrarci la varietà dell’esperienza umana, come la stessa idea o lo stesso sentimento possano essere al contempo ora tragico e ora quasi felice (la felicità per Schubert è un’aspirazione, mai una realtà).

VOLODOS È UN LETTORE raffinatissimo della partitura: con il tocco fa sentire le differenze delle varie voci, la libertà del gioco contrappuntistico, e le sue dita sono capaci del più impercettibile pianissimo come del più aggressivo fortissimo. Mai per trarne qualche effetto plateale, però, di quelli che strappano l’applauso, sempre invece per chiarire la tessitura della musica che sta suonando. L’ascoltatore ha quasi l’impressione di leggere la partitura. Nell’interpretazione di Skrjabin, che ha occupato la prima parte della serata, tutto ciò diventa addirittura esplicito, quasi un saggio di musicologia. Dai primi Studi e Preludi ai Poemi, alle Danze, e alla decima Sonata, composti negli ultimi anni, a un soffio dallo scoppio della guerra.
Schubert apriva un secolo: Schumann, Brahms, Bruckner e perfino Schönberg sarebbero inspiegabili senza di lui. Ma Skrjabin? Chiudeva l’età del romanticismo, esasperandone la tendenza a un’armonia in cui il riferimento a una tonica si estende a tutti i gradi della scala, ogni grado può essere di volta in volta la tonica del campo armonico del momento. Ma si ferma qui. Non va oltre. Non inventa, come Schönberg o come Stravinskij un nuovo sistema di organizzazione armonica. Ed è proprio questa corsa verso l’indistinto che sembra volerci mostrare Volodos. Stupendo! Quasi, a un secolo di distanza, la nostra condizione attuale. La corsa verso un indifferenziato che non conosciamo. Tre i bis – Schubert, Minuetto D.600, Ernesto Lecuona, Malaguena, Mompou, El lago, del 1947, che hanno chiuso trionfalmente la serata.