Le discariche umane sono un focolaio annunciato
Covid-19 Al decreto Cura-Italia le Rsa hanno risposto in modi diversi: in parte chiudendosi alle visite dei parenti, nella maggioranza dei casi non prendendo alcun provvedimento, per non allarmare i parenti degli anziani o forse per non sciupare l’immagine di casa di riposo salubre e moderna
Covid-19 Al decreto Cura-Italia le Rsa hanno risposto in modi diversi: in parte chiudendosi alle visite dei parenti, nella maggioranza dei casi non prendendo alcun provvedimento, per non allarmare i parenti degli anziani o forse per non sciupare l’immagine di casa di riposo salubre e moderna
Ormai è lunga da far paura la lista degli istituti per anziani che si stanno rivelando focolai di Covid-19. Nelle regioni che per prime e più pesantemente sono state colpite, il numero dei morti e dei contagi, di anziani e operatori, è una doccia fredda sulle speranze di uscita dall’emergenza, mentre in contesti che, come la Sardegna, sono entrati più tardi nella pandemia e avrebbero potuto essere difesi con minor difficoltà, sono proprio gli istituti per anziani i focolai in crescita e tutt’ora fuori controllo.
L’inizio di questa che sembra un’emergenza nell’emergenza va ampiamente retrodatato: a Sassari, ad esempio, le «morti sospette» a Casa Serena, la casa di riposo del Comune, sono iniziate ai primi di marzo, e man mano che procedono i controlli e i tamponi sembra che nessuna casa di riposo sia esente dal contagio.
Anche al Pio Albergo Trivulzio di Milano le morti sospette sono iniziate ai primi di marzo, e altrettanto accadeva sottotraccia nel resto della regione e in realtà in tutte le regioni. Ma in Lombardia si è anche aperta una discussione promettente e feroce che ha per argomento la delibera con cui la giunta regionale ha affidato alle aziende per la tutela della salute (Ats) «l’individuazione ( …) di strutture della rete sociosanitaria, ad esempio Residenze sanitarie assistenziali (Rsa), da dedicare all’assistenza a bassa intensità dei pazienti CiVid positivi» (delibera XI/2906 del 8 marzo, Allegato 2).
«Un cerino in un pagliaio» ha definito questa delibera, in un’intervista al Quotidiano del sud, Luca Degani, presidente di Uneba, l’associazione di categoria che raggruppa 400 case di riposo lombarde. L’assessore alla sanità Gallera gli ha subito risposto che si trattava di un invito non di un obbligo, che presumibilmente non poche case di riposo hanno ritenuto conveniente accettare.
Finora è stato solo un rimpallo di colpe ma questa discussione potrebbe essere un’occasione preziosa per riaprirne un’altra, più importante, interrotta da troppi anni, sull’ipertrofia delle strutture su cui il modello lombardo, dai tempi del governatore Formigoni, ha fatto le sue fortune, o meglio le fortune di alcuni.
In Italia sono non meno di settemila le strutture variamente denominate che ospitano, ma in molti casi sarebbe più appropriato dire recludono, circa trecentomila anziani e non raramente anche persone disabili. Al decreto Cura-Italia e alle disposizioni precedenti, questi istituti hanno risposto in modi diversi: in parte chiudendosi alle visite dei parenti, a volte in modo repentino senza neppure attivare canali alternativi di comunicazione; nella maggioranza dei casi però non hanno preso alcun provvedimento, per non allarmare i parenti degli anziani, è stato detto, o forse per non sciupare l’immagine di casa di riposo salubre e moderna.
Così, complice la carenza di dispositivi di protezione individuale, che in molte regioni specie del sud era e resta una vera e propria assenza, il personale ha continuato a lavorare, anche se insospettito dall’insolita frequenza delle morti.
Il 25 marzo la segreteria nazionale della Cgil, la Funzione pubblica e la Spi, il sindacato pensionati, hanno inviato su questi fatti una lettera allarmata e puntuale alla ministra delle politiche sociali Catalfo, ai presidenti della conferenza delle Regioni e dell’associazione dei Comuni Bonaccini e De Caro. Ma solo in questi giorni stanno iniziando i controlli a tappetto, e arrivano le conferme che le morti finora registrate nelle case di riposo sono solo la punta di un iceberg.
Si ripete da varie parti, in questo tempo di molte domande e poche certezze, che il mondo non vicino ma forse abbastanza prossimo del dopo pandemia dovrà essere migliore e che impareremo dagli errori. Bene, forse siamo ancora in tempo per porre rimedio alla politica e alla cultura delle strutture, del «dove lo metto» riferito alle persone anziane, a quelli che non riescono a essere quei matti facili che si tengono insieme con un po’ di chimica e di parole, alle persone che hanno bisogno di aiuto costante per disabilità, malattie croniche, sventure ricorrenti.
In Italia possiamo ricominciare da tre, come diceva Troisi: ci sono ancora funzionanti, resistenti ai tagli e alle ideologie liberiste, modelli di servizio e sistemi locali sociali e sanitari che dimostrano, dati e costi alla mano, che un’abitazione piccola per cinque sei persone funziona meglio che una Rsa, anche per un anziano non autosufficiente; che una rete di presidi sanitari territoriali fa funzionare meglio un ospedale e salvaguarda i suoi successi; che il servizio pubblico ha bisogno della comunità di cui fa parte, dei suoi utenti, dei cittadini organizzati non solo dei professionisti e degli enti che erogano regole e risorse. Certo, resta il problema del profitto, su cui le strutture sono imbattibili, e anche su questo bisognerà ricominciare a ragionare.
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