Il tema della vita vista da morti attraversa la mitologia come la narrazione contemporanea. Una forma romantica di rilettura di se stessi, del proprio tempo e anche un modo per fare i conti con i propri errori e mancanze. Divenire in un certo senso l’uomo invisibile della propria vita per entrare nell’intimità di amici e amori senza farsi vedere, ma anzi rilevando negli altri il peso o la leggerezza della nostra stessa mancanza. La nostra esistenza interrotta ed esaurita da una morte sempre assurda. Uno stratagemma per certi versi facile, ma che nel suo romanzo d’esordio Emanuele Aldrovandi affronta e conduce in maniera inedita ed estremamente puntuta. Il nostro grande niente (Einaudi, pp. 192, euro 17) è infatti il racconto più che di un’occasione persa o portata via dal tempo, di una mancanza dettata da quello che fu l’esistenza stessa del protagonista che ora vede scorrere davanti ai suoi occhi la sua vita diventata la vita degli altri. Aldrovandi entra a piedi pari in quella forma tutta maschile di ego-narcisismo che pretende in sé un’unicità romantica ed eroica, stoica e insostituibile.

IL PROTAGONISTA vede così evolvere la vita, mentre lui non c’è più. Ed è questo forse l’elemento più forte e meglio descritto dall’autore, già apprezzato regista cinematografico e teatrale. Il protagonista e voce narrante offre infatti uno sguardo sull’esistenza altrui dettato proprio da quegli elementi di ostinata permanenza che il maschio in genere sembra pretendere dalla vita. Viene da pensare che oggi Tancredi Falconeri probabilmente direbbe che nulla deve cambiare perché tutto resti in vita. Una modalità per cui la propria esistenza viene fermata non tanto dalla morte, ma da un prelazione data, da un a priori certificato da un sentimento amicale come amoroso mai mutabile.

La tristezza della futura sposa si trasforma così in una ricerca nuova e l’abbandono in un’inedita possibilità. La malinconia che accomuna i due protagonisti si esaurisce in una rabbia sempre più crescente la voce narrante che libera una violenza dettata sia dall’impotenza, data dalla sua morte, sia dall’incapacità di comprendere quello che la morte non gli permette più, ovvero il movimento. L’agire continuo dei giorni sostituendosi uno dopo l’altro invecchiano così il corpo dell’amata e al tempo stesso la portano sempre più lontano dal «fu» amato compagno. L’amore assume l’unico colore del possesso quale elemento ancillare di un sentimento ormai prevalente di tradimento. Il protagonista è sostituibile e la vita va avanti senza di lui. Il nostro grande niente è un romanzo coraggioso che a tratti sfiora la forma di un vero e proprio trattato sull’amore contemporaneo, raccontato cogliendo con assoluta precisione alcuni degli elementi che lo rappresentano.

UNA DINAMICA che trasforma l’amore in incomprensione, la passione in ferocia spesso liberando sentimenti sottesi e occultati che non sono altro che lo scheletro di una formazione culturale atavica che aspetta solo l’occasione giusta per dichiararsi. Ma se fosse possibile avere un’altra possibilità? E qui Aldrovandi sorprende con un seguito che scombina i piani e riscrive in parte la psicologia dei suoi protagonisti.