Siamo tutti l’ananas (sulla pizza) di qualcun altro. Lo ha detto l’agronomo e scrittore Antonio Pascale durante i primi dibattiti scaturiti dalla scelta ministeriale dell’espressione «della Sovranità alimentare» nel nuovo nome del dicastero già delle Politiche agricole e alimentari; la locuzione, coniata nel 1996 dal movimento internazionale degli agricoltori «Via Campesina», durante la sua Conferenza internazionale svoltasi quell’anno in Messico indicherebbe il diritto dei popoli a definire le proprie politiche e strategie sostenibili di produzione, distribuzione e consumo di cibo, basandole sulla piccola e media produzione, ma spesso è confusa con l’autarchia.

Il nazionalismo alimentare trova espressione nel reiterato uso del brand Made in Italy – dicitura che designa un altro Ministero – specie quando si parla di produzione agricole e più genericamente del mangiare, che sembra diventato l’intrattenimento e il tema di conversazione più gradito in Italia. Che poi tutte le solanacee con cui, ad esempio, condiamo la pizza vengano da oltre oceano a differenza di Halloween e di Santa Klaus che sono nord europei, è un altro discorso.

Il fatto interessante è che se da una parte si magnifica il km 0 (che non vale, sempre Pascale docet, quando dobbiamo esportare i prodotti: la tratta Acqualagna- Miami, se a viaggiare è un nostro tartufo, va bene solo all’andata) dall’altro le incursioni italiche verso le cucine di altri Paesi sono sempre maggiori e varie, anche in virtù del basso costo del take away non italiano: i kebabbari, sì, che infastidiscono il senso del decoro dei centri cittadini anche dei sindaci di sinistra, le gastronomie cinesi e i reparti alimentari dei bazar asiatici. Tiene duro anche il Mac Donald, che pur nelle declinazioni territoriali di menù con la carne della vacca indigena, offre sempre pasti alla portata anche dei ragazzini.

E i ragazzini, quelli che lo sono ora ma anche i loro genitori, che lo sono stati negli anni Ottanta e Novanta, subiscono la fascinazione in particolare dei cibi legati al mondo dell’animazione giapponese, e prima ancora dei fumetti, con un interessante paradosso: le pietanze di cui si servono i protagonisti di quelle storie sono spesso di matrice occidentale e segnatamente europea, specie per quel che riguarda la carta dei dessert, di cui in Giappone sono storicamente carenti.

I panini dolci e soffici di Heidi, quelli che la bambina delle Alpi sottrae a casa Seseman, per portarli in dono alla nonna di Peter sono più radicati nell’immaginario di molti quarantenni della piadina romagnola o del big Mac.

Le creperie e le crêpe, diffuse in Italia nella seconda metà degli Anni Novanta, ora entrate nei menù di quasi tutte le gelaterie e presenza fissa ambulante nelle sagre di paese, sono figlie spirituali, per molti consumatori del dolce, di Creamy Mami, il furgone dei genitori di Yu dell’anime L’incantevole Creamy, che serviva il dolce francese arrotolato a cono come nell’uso nipponico. Ci sono over quaranta che per indicare il proprio sushi corner preferito sottolineano «sembra il ristorante di Marrabbio», vale a dire il padre di (Kiss me) Licia che nel fumetto e nelle 42 puntate della serie tv italiana (che negli anni Ottanta riscosse molto più successo che in patria) non fa che cucinare e servire il piatto tradotto qui come «le polpette». In effetti più che meat ball si trattava di okonomiyaki, un frittatone di verza agglutinato con una apposita farina.

A spiegarlo è Massimiliano De Giovanni, bolognese, sceneggiatore e docente di scrittura creativa. Oltre che autore (fa parte del collettivo Kappa boys, a cui si deve lo sbarco dei manga in Italia nel 1990) di episodi della serie Lupin III Millennium e di graphic novel, è foodblogger. Le sue due attività si sono sommate nei gustosi ricettari narrati In cucina con gli anime giapponesi e In cucina con gli anime dello Studio Ghibli editi entrambi da Kappalab e presentati all’incontro del Festival Cinematica di Ancona, curioso ed eclettico contenitore culturale che si fonda sull’arte in movimento e nel 2023 è dedicato al tema dell’anima: oltre a danza cinema dunque, anche agli anime e ai cartoni animati.

De Giovanni usa accompagnare i suoi incontri con la preparazione dei cibi di cui parla e in uno di questi si è sentito ringraziare dalla platea dei genitori proprio per la ricetta delle «polpette» di Marrabio, veicolo creativo di verza altrimenti invisa alla prole.

Forse alla base dell’amore per il sushi, contaminato da formaggi spalmabili e maionese, c’è per molti il ricordo del pranzo degli studenti giapponesi (da Ataru di Lamù in poi) consumato nel bento, il porta pranzo a più scomparti, una schiscetta organizzata e attraente come un vassoio dell’aereo o un beauty case, o gli onigiri dei Pokemon, i triangoli di riso, quasi arancini scuoiati, con il rettangolo di alga nori al centro. Nel suo libro di ricette Di Giovanni spiega come prepararli, con variazioni sul tema (il latte e miele post tsunami di Ponyo diventa un budino con gli stessi ingredienti, le polpette dei minatori di Laputa- il castello nel cielo vengono legate col cous-cous) e interessanti premesse su trame e costumi dell’arcipelago giapponese. Particolarmente interessanti quelle riferite ai lavori dei maestri Miyazaki e Takahata; prendiamo La Città Incantata, film Orso d’Oro a Berlino 2002 che si fonda sul cibo ed evoca miti e archetipi comuni alla tradizione di culture diverse: la metamorfosi in maiali di umani voraci, come Circe comanda, l’ingestione di un cibo che crea il legame con un al di là come già fu per Proserpina, la guarigione sempre attraverso il consumo di un alimento, il viaggio di una bambina in un altro mondo che ricalca ogni avventura negli inferi, compresi quelli di Wonderland ed Emerald City.

Tutto con un potente messaggio ambientalista e un miglior attore non protagonista, lo spirito Senza-Volto, che mangia a dismisura cambiando dimensione, per Miyazaki l’emblema della complessità delle maschere dentro ogni uomo, e che De Giovanni ha messo in copertina nel libro dedicato alle ricette dei film dello Studio Ghibli. «La cucina tradizionale del Giappone è soprattutto di pesce, pochi i dolci per cui guardano alla pasticceria nord europea».

Così per la cheesecake di New York, offerta a merenda alla protagonista della Città Incantata dalla maga Zeniba, o i pancake stregati che Kiki, di Kiki consegne a domicilio divide col suo gatto Jiji. Sempre Kiki si trova a vivere un’avventura determinante alla sua storia nella consegna di uno sformato di aringhe e zucca, regalo di una nonna a una poco grata nipote: donare e ricevere cibo sono gesti centrali negli anime e accompagnati da formule rituali di ringraziamento che si estendono, spiega Di Giovanni, a tutti coloro che hanno contribuito alla preparazione del pasto, compresi i fornitori di materie prime.

Se l’aspic della tavola di Conan – ragazzo del futuro è di origine francese, mentre a Ponyo si deve la nostrana attrazione per il ramen, non è solo vezzo fusion. Nelle tavole, sia i disegni che le mense, ammannite da Miyazaki, convivono mondi diversi e regna la curiosità e l’amore per la conoscenza, quella che ha animato il programma televisivo giapponese World Masterpiece Theater che ha realizzato serie ispirate ai romanzi della letteratura per ragazzi mondiale, da Anna dai Capelli Rossi a Sherlock Holmes