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Le corrispondenze allegoriche

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Arte A Namur, cittadina belga, è stata inaugurata una mostra dal titolo «Facing Time» in cui Jan Fabre mette a confronto le sue opere con quelle dell’artista ottocentesco Felicien Rops

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 28 marzo 2015

Namur è una piccola cittadina, capitale della Vallonia, a 40 minuti da Bruxelles. Una cittadina che ha dato i natali a Felicien Rops (1833-1898), artista belga piuttosto originale e controcorrente per la sua epoca, ma anche abbastanza dimenticato dalla storia dell’arte. A Namur, nella chiesa di Saint-Loup, nel 1866 è successo un avvenimento molto particolare: Charles Baudelaire, che di Rops fu amico e sostenitore, fu colpito da un ictus e rimase paralizzato al lato destro del corpo, morendo l’anno dopo a Parigi. Il 14 marzo a Namur si è inaugurata una mostra (che resterà aperta fino al 30 agosto) dal titolo Facing Time, un affascinante dialogo spaziotemporale tra Rops e il più importante artista fiammingo contemporaneo, ovvero Jan Fabre (classe 1958) Invitato dalla curatrice Joanna de Vos, Fabre ha raccolto volentieri la sfida di allestire le sue opere, grafiche, fotografiche, scultoree, filmiche, performative e installative non solo nel museo Rops, mettendole a confronto con l’immaginario del pittore, disegnatore, illustratore e caricaturista ottocentesco, ma anche alla Maison de la Culture e in giro per questo capoluogo di provincia da 100.000 abitanti: dal teatro alla cittadella fortificata che domina Namur. Senza tralasciare la chiesa di Saint-Loup, dove Fabre il 30 maggio converserà in pubblico con Bernard-Henri Levy, complice di questa riuscita operazione che, con il suo «sguardo filosofico» e un suggestivo, lunghissimo testo in catalogo, chiude il cerchio di uno stimolante cortocircuito dove l’arte del passato e quella del presente diventano contemporanee a tutti gli effetti. Il filosofo francese non è stato chiamato casualmente, dal momento che, molti anni fa, aveva scritto un romanzo proprio sugli ultimi giorni di vita del poeta dei Fleurs du mal, il teorico della vita moderna, di un’estetica urbana che dalla flanerie ci avrebbe condotto nella seconda metà del Novecento fino alla deriva situazionista di Debord.

È sorprendente vedere come Fabre e Rops sono legati dagli stessi temi, da quello di un’oscenità spesso al limite della goliardia e dello sberleffo a una vanitas rivisitata e costellata di allegorie della morte, dai paesaggi alle simbologie e alle metamorfosi animalesche. Questa serie di illuminazioni e di correspondances, che vengono puntualmente sottolineate da un accurato allestimento, rendono Facing Time qualcosa di più del solito faccia a faccia tra artisti di epoche diverse: lo stesso Fabre è un collezionista di quadri e disegni di artisti belgi (di Rops possiede solo un paio di opere) ma con questa mostra ha avuto la possibilità di realizzare un suo vecchio desiderio.

Un incontro talmente ravvicinato messo in evidenza dall’installazione in cui un simulacro a grandezza naturale di Fabre preme la faccia contro la copia del quadro più famoso di Rops, la gouache Pornocratès (1878), anzi, ci sbatte violentemente con il naso fino a farlo colare sangue producendo una pozza sul pavimento. L’idea – già utilizzata in altre occasioni con dipinti di altri artisti, dunque si tratta di una variazione sul tema – è quella di penetrare totalmente nell’opera del suo conterraneo e, idealmente, ricollegarsi a tutta una tradizione artistica che dalla pittura fiamminga, passando per Ensor e Magritte, arriva fino ai giorni nostri. In passato Fabre aveva affermato che se avesse dovuto rubare un quadro da un museo questo sarebbe stato Pornocratès, allegoria raffigurante una donna nuda e bendata che tiene al guinzaglio un maiale contornata da tre puttini: fusione di sacro e profano, di classico e moderno. E il maiale per esempio ritorna in un disegno a matita colorata di Fabre dal titolo Requiem fur eine Metamorphose (2007), così come un altro confronto puntuale è tra lo schizzo a matita di Rops per un monumento in cui campeggia un serpente (Le bonheur dans le crime, 1884) e l’assemblaggio di Fabre Croix avec serpent II (2012), in cui l’artista, avvolge un serpente imbalsamato su una croce rivestita degli amati scarabei.

Il sincretismo religioso e iconografico di Fabre, gli inevitabili riferimenti alchemici, la costruzione di un bestiario zeppo di tartarughe, lumache, aquile, draghi e insetti di ogni tipo, raggiungono una plastica e seducente apoteosi nella serie dei bronzi Chalcosoma (realizzati tra il 2006 e il 2012) disseminati tra la chiesa di Saint-Loup, dove troneggiano gli scarabei sacri (rimando ai culti dell’antico Egitto) che hanno però sul dorso una croce, un ramo di ulivo o un bastone pastorale (simboli invece della religione cattolica). Secondo una bella definizione della de Vos, «Fabre è un mistico contemporaneo che è alla costante ricerca dell’invisibile». Alla Maison de la Culture, invece, vi sono due sale in cui sono sistemati altri bronzi di Fabre, messi in relazione con i disegni di Rops. Spettacolare è soprattutto la galleria di teste riproducenti Fabre stesso – l’autoritratto è costante di gran parte della sua opera – provvisto di ogni sorta di corna e di palchi, elemento caratteristico degli artiodattili (cervi, alci, stambecchi), ma che fanno pensare a un’altra figura ricorrente nell’opera di Fabre e più in generale della cultura fiamminga, ovvero il diavolo, associato a un altro animale provvisto di corna: il caprone.

L’artista è un animale ma Fabre è – secondo una bella definizione di Levy – una «bête sans espéce», sottolineando, dunque, ancora di più, la sua natura metamorfica (anche nel senso di versatilità espressiva). Facing Time secondo il filosofo non è una semplice mostra, ma l’occasione per fabbricare un pensiero, dunque per «fare della metafisica». E l’artista vivente non si è tirato indietro lasciando che le sue opere invadessero le sale consacrate all’artista dell‘800. Nella retrospettiva allestita circa un anno fa al MAXXI di Roma, Fabre aveva concentrato in un unico ambiente gran parte della sua carriera, secondo una logica bulimica che frastornava il visitatore, rimandandolo dalle opere grafiche alle sculture alle immagini in movimento (Fabre ha realizzato quasi una cinquantina tra film e video). La de Vos, che è stata assistente di Fabre per alcuni anni, ha potuto attingere a una produzione altrettanto variegata e l’effetto finale non è meno (e volutamente) ridondante. Non c’è vuoto in questa mostra ma solo pieno. Le opere di Fabre saturano gli interstizi del museo Rops ma senza imporsi, semmai mescolandosi fino all’ambiguità: a volte è difficile comprendere al primo sguardo se si tratta di un Rops o di un Fabre. Ed è in questa ludica contiguità spaziale e concettuale che risiede il fascino maggiore di Facing Time.

Le metamorfosi animalesche dell’artista di Anversa sono collegate spesso all’attributo della difesa (il guscio, la corazza) o dell’attacco (le corna). E non è assimilabile all’animale anche la figura del guerriero in armatura che compare così spesso nel teatro di Fabre o in un cortometraggio come Lancelot (2004) interpretato naturalmente dall’artista?

Ma vi sono poi altri bronzi riuniti nella mostra Facing Time, bronzi ricoperti da una particolare vernice per aerei, accorgimento adottato dall’artista per non fargli mai perdere lucentezza con il passare del tempo. Parliamo di quelle sculture che riproducono il cervello, sormontato di volta in volta da altri elementi. Tra di esse spiccano soprattutto i due emisferi cerebrali tra i quali si erge un enorme membro maschile eretto. Il recente interesse di Fabre verso le neuroscienze ha prodotto nel 2014 il singolare cortometraggio Do we feel with our brain and think with our heart?. In questo film Fabre intervalla un dialogo con Giacomo Rizzolatti, lo scopritore dei neuroni-specchio, ad alcuni bizzarri sketch, riflettendo su arte, empatia, processi neuronici e attività estetica, insomma un mix tra documentario e film d’artista, ironico ma anche volutamente didattico.

Ma il fallo ha sempre dominato l’immaginario di Fabre e qui il confronto tra l’artista di Anversa e quello di Namur ritorna preponderante e occupa una delle sale superiori del museo Rops, dove campeggiano disegni come Voyage au pays des vieux dieux o Sainte Thèrese o ancora Serre-fesse (1864), tutte opere esplicitamente pornografiche di Rops, in dialogo con la serie di disegni osceni di Fabre The Fountain of the World, da cui scaturisce la piccola scultura dell’uomo a pancia sopra che eiacula dal membro in erezione un fiotto di sperma, simbolo di fertile vitalità ma anche canale di collegamento tra l’uomo e il cosmo.

Nella mostra di Namur spiccano in modo particolare proprio i disegni di Fabre, probabilmente perché è il genere preferito anche da Rops ed è su questo terreno che si articola meglio il confronto tra i due artisti Dai famosi disegni realizzati con la penna a sfera bic, insieme alle foto in bianco e nero ritoccate sempre con la preziosa penna, utilizzata in diversi periodi dell’attività artistica di Fabre, a quelli a matita, inchiostro di china, acquarello. E anche Rops sperimenta diverse tecniche nelle sue opere (inclusa l’incisione) che spesso puntano a épater le bourgeois e suscitano scandalo perfino oggi. Tanto è vero che questo esponente del simbolismo belga è di fatto anche uno dei precursori del Surrealismo.

Al di fuori delle stanze del museo, Facing Times si espande per l’intera Namur e qui Fabre ha potuto davvero sbizzarrirsi a sistemare le sue sculture, alcune di enormi dimensioni e di varie tonnellate di peso, nel flusso della vita urbana, quasi come se alcuni suoi simulacri fossero, per citare Baudelaire, dei flaneur. La gigantesca tartaruga di bronzo cavalcata da uno dei tanti doppi di Fabre in Searching for Utopia (2003) domina da una delle collinette della cittadella di Namur, così come un’altra scultura dell’artista, L’homme qui mesure les nuages (1998), sistemato sul belvedere, raffigura un uomo in cima a una scala che misura con un righello le nuvole in cielo. Sono opere che il primo settembre saranno smantellate. Ed è un vero peccato, perché sembrano concepite davvero per questo luogo, come fossero un’opera site specific. Sarebbe bello se questi interventi di arte pubblica rimanessero a Namur e, con esse, diventasse perpetuo il confronto tra due artisti che, pur non essendosi mai conosciuti in vita, continuando a dialogare al di là dello spazio e del tempo.

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