C’è un filo rosso che lega migliaia di comunità sparse per tutto il Pianeta: è la resistenza al modello estrattivista che continua a portare sconquassi sociali e ambientali, ma non certo il tanto promesso e decantato sviluppo. Per discutere di come resistere sui loro territori all’azione delle multinazionali che hanno fatto e stanno facendo la loro fortuna sfruttando questo modello, nel caso specifico l’Eni, lo scorso sabato al Loa Acrobax di Roma si sono incontrati attivisti, comitati ed esponenti della società civile globale e italiana, che hanno inoltre provato a immaginare come costruire alternative allo status quo.

Solo tre giorni prima, l’Eni aveva tenuto la sua assemblea degli azionisti per il terzo anno consecutivo a porte chiuse causa Covid, grazie a una disposizione ad hoc del governo sulle partecipate contenuta nel Decreto Milleproroghe – la società petrolifera è ancora al 30 per cento di proprietà dello Stato. Di conseguenza non è stato possibile esercitare l’ormai consueta pratica dell’azionariato critico che, iniziato quasi tre lustri fa da ReCommon e dalla Fondazione Finanza Etica, è ormai pratica sempre più diffusa tra organizzazioni e movimenti nostrani, che spesso hanno facilitato la partecipazione di rappresentanti di realtà del Sud del mondo.

Proprio durante l’ultima assemblea degli azionisti in presenza, nel 2019, l’attivista dell’organizzazione mozambicana Justiça Ambiental, Ilham Rawoot aveva avuto uno scambio molto serrato con l’amministratore delegato dell’Eni Claudio Descalzi. Rawoot aveva denunciato l’impatto devastante delle attività delle multinazionali del settore fossile, tra cui l’Eni, a Cabo Delgado, nel nord del Mozambico, la più povera del Paese, dove lo sfruttamento dei ricchi giacimenti su terra ferma e in mare di gas ha solo esacerbato le fortissime tensioni sociali. Come ribadito anche all’incontro tenutosi ad Acrobax, è l’estrema indigenza delle comunità l’innesco dei numerosi atti di violenza ripetutisi negli ultimi anni nell’area, con migliaia di morti e circa 800mila sfollati. «È troppo facile ridurre tutto all’estremismo islamico, come fanno le autorità e i media, la presenza di corporation come Eni e la francese Total ha fatto inoltre sì che il governo protegesse solo queste grandi compagnie senza curarsi delle comunità locali», ha sottolineato Rawoot, ricordando come i profitti dello sfruttamento del gas non rechino benefici alla popolazione mozambicana. «Anche perché all’Eni e alle altre società è stato permesso di far transitare gli introiti del gas per Dubai, con una perdita per il Mozambico che stimiamo sui 5 miliardi di dollari». Un modus operandi che secondo Rawoot costituisce una forma moderna ma quanto mai odiosa di colonalismo.

DI GAS È RICCO PURE IL SOTTOSUOLO DELL’ALGERIA, uno dei paesi dove i vertici del governo italiano e di Eni si sono recati di recente per sottoscrivere nuovi accordi, così da sostituire l’import dalla Russia. «Il regime di Algeri basa la sua esistenza sullo sfruttamento dei combustibili fossili e sulla stretta collaborazione con le multinazionali occidentali», ha spiegato Hamza Hamouchene, attivista e ricercatore algerino del Transnational Institute. «Negli anni non sono mancate le proteste, represse duramente dal regime, senza che le aziende estrattive battessero ciglio», ha ricordato Hamouchene, ribadendo che l’Eni sta diventando uno dei più grandi investitori stranieri in Algeria, se non il più grande. «Vi daremo 9 miliardi di metri cubici di gas in più. Ovvero il 12% della domanda di gas italiana e un’espansione del 50% della produzione algerina destinata all’Italia. Così si rafforzerà il regime, è evidente».

Dalle nostre parti Eni è particolarmente attiva in Basilicata, il cosiddetto Texas d’Italia, che rimane però una delle regioni più povere del nostro Paese e dove non mancano i problemi legati a incidenti occorsi in passato. Il prossimo 27 giugno, infatti, a Potenza si celebrerà il processo per lo sversamento del 2017 di 400 tonnellate di petrolio dal Centro Olio di Viggiano, in Val d’Agri, che vedrà alla sbarra i manager dell’Eni responsabili dell’impianto. Ma delle conseguenze sulla salute e sull’ambiente hanno raccontato ad Acrobax anche il giornalista e attivista siciliano Andrea Turco e Stefano Seghetti di Collesalviamo l’ambiente, riferendosi alle raffinerie dell’Eni a Gela e a Stagno, nei pressi di Livorno. Due contesti ricchi di analogie. «A Gela la raffineria è stata chiusa nel 2014, ma se si guarda sul sito del ministero competente si scopre che non è stata fatta nessuna bonifica, sebbene sia un Sin, un Sito di Interesse Nazionale», ha ricordato Turco, evidenziando come l’area di Gela detenga il triste primato nazionale per le malformazioni neo-natali. Anche il ricatto occupazionale non regge più, ha chiarito Seghetti, perché i posti di lavoro sono sempre meno, «così come non sta in piedi la favola della bio-raffineria che di bio non ha nulla e per la quale si è addirittura provato a ottenere fondi del Pnrr», si è lamentato Seghetti. Anche la raffineria di Stagno è destinata infatti a chiudere i battenti, «perché raffinare costa meno altrove, per esempio negli Emirati Arabi».

EPPURE LE ALTERNATIVE A QUESTO MODELLO obsoleto e fallimentare non mancano, come hanno rimarcato Giuseppe Ungherese di Greenpeace Italia e il professor Leonardo Setti, dell’Università di Bologna. Per quest’ultimo è imprescindibile abbandonare il sistema estrattivista, che nei territori si manifesta con progetti calati dall’alto che a volte comprendono anche mega impianti di rinnovabili, che rischiano di produrre «una nuova forma di colonialismo energetico». Andrebbe invece costruito un approccio dal basso, partendo da nuovi stili di vita. Una dinamica che ben conoscono le attiviste siciliane di Ecologia Politica Palermo, che hanno ribadito come i territori dell’isola continuino a essere sotto attacco da parte dell’industria fossile e di quella militare.

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