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Le cinque forme della disoccupazione di sistema

Le cinque forme della disoccupazione di sistema – LaPresse

Scenari Le società capitalistiche non richiedono la piena occupazione, e le politiche keynesiane, utili nelle crisi, difficilmente sono la soluzione di un problema di natura strutturale

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 25 gennaio 2022

Le economie occidentali, il “capitalismo maturo”, sono in grado di riassorbire la persistente disoccupazione che gli è ormai endemica? L’approccio della maggior parte degli economisti mainstream prevede tre tipi di disoccupazione: volontaria, temporanea, fuori mercato. Quella volontaria: di chi non accetta il salario e le condizioni offerte dal mercato; quella frizionale, dovuta a temporanei impacci, che prima o poi saranno superati; e la disoccupazione dovuta a impedimenti all’operare del mercato, che altrimenti si presume efficiente: dal salario minimo al reddito minimo, ai sindacati che contrattano retribuzioni ‘troppo alte’. Evidentemente, l’unico modo (o quasi) di ridurre questi tipi di disoccupazione, a parte quella volontaria, è ridurre il costo del lavoro: riducendo tasse e contributi, il cosiddetto cuneo fiscale, o generando le condizioni perché le imprese possano ridurre i salari. Solo a fronte di una maggiore convenienza nel loro utilizzo, come su queste pagine ha scritto Roberto Romano nell’analisi della disoccupazione, le imprese assumeranno più lavoratori.

Oltre allo scarso realismo di queste teorie, è difficile pensare che possano davvero spiegare gli elevati e persistenti tassi di disoccupazione e inoccupazione, ad esempio, delle economie periferiche dell’eurozona. Quindi soprattutto gli economisti considerano – spesso controvoglia – un quarto tipo di disoccupazione: quella keynesiana, dovuta al fatto che le imprese richiedono pochi lavoratori perché, a loro volta, i consumatori richiedono pochi beni e servizi che le imprese producono. Politiche espansive, o la crescita, riducono la disoccupazione keynesiana aumentando la domanda di beni e servizi, ma le regole europee impongono che, se la Commissione europea stima che il “Pil potenziale” non è molto alto, queste politiche ci sono precluse. Il Pil potenziale indica quanto un’economia potrebbe produrre al massimo, se la disoccupazione fosse ridotta al suo livello “naturale” (cioè se fosse solo dei primi tre tipi visti sopra).

Romano si chiede: vanno bene le critiche, ma crediamo davvero che l’Italia abbia enormi e inesplorati margini di crescita, tali da assorbire tutta la disoccupazione se solo aumentassimo abbastanza il deficit? Ahinoi, forse no. Non fosse altro per la persistente tendenza dell’economia italiana, non appena il reddito cresce, ad aumentare subito le importazioni, riducendo così lo stimolo al prodotto nazionale.
Occorre quindi considerare almeno altre due teorie, meno ortodosse, riguardo la disoccupazione. Una è la disoccupazione classica: dovuta all’insufficiente accumulazione di capitale, ovvero le attività capitalistiche di una società non richiedono necessariamente l’impiego di tutte le persone adulte ed abili che ne fanno parte. Le politiche keynesiane, utili nei momenti di crisi, difficilmente possono risolvere questo problema strutturale.

C’è poi la quinta forma di disoccupazione: quella tecnologica, che dipende dal fatto che molti investimenti sono realizzati proprio per ridurre l’utilizzo di forza lavoro, o comunque possono avere questo risultato. È un tema ricorrente per i lavoratori – dal luddismo alla paura dei robot – ma che gli economisti hanno spesso ignorato (con eccezioni: Ricardo o, in tempi più recenti, Sylos Labini).
Se la disoccupazione è alta e persistente, dovuta almeno a quattro-cinque diverse cause, e non è verosimile che la crescita del Pil la assorba pienamente, la soluzione è tentare di orientare lo sviluppo capitalistico in una direzione compatibile con finalità e obiettivi sociali. Ma questa è una strategia di medio-lungo periodo, e deve essere europea, non può essere solo nazionale.

Nel frattempo? Un’opzione è tornare a ragionare in modo ampio, direi fantasioso, di impiego pubblico. La pandemia in questo senso è stata un’occasione sprecata, perché ha manifestato una amplissima domanda di servizi pubblici proprio mentre gli Stati hanno allargato i cordoni della borsa. Ma le misure di stimolo sono state sprecate in sussidi e bonus, non solo in Italia (e Next Generation EU è un ottimo passo europeo, ma timido e temporaneo).

Da noi, i lavori socialmente utili sono stati considerati, a volte a ragione, un simbolo di spreco, corruzione, e malagestione. Ma il vizio era all’origine: per decidere di impiegare su larga scala una quota consistente di disoccupati, occorre prima decidere cosa vogliamo che venga prodotto dal settore pubblico, decidendo di ampliarne la sfera in modo consistente (anche se, dopo anni di tagli al pubblico impiego, potremmo iniziare dal rimpolpare la Pubblica amministrazione, Pa).

Ridisegnare e ampliare l’offerta di beni e servizi pubblici è un primo passo verso lo Stato come “datore di lavoro di ultima istanza”, proposta di Minsky rilanciata recentemente da Gasperin e Skidelsky sulla PSL Quarterly Review. Qui l’idea è che lo Stato si impegni a dare un impiego a chiunque non trovi occupazione sul mercato. Può sembrare un’idea radicale e quasi rivoluzionaria, ma è non è così lontana dalla proposta di Ernesto Rossi di un “esercito del lavoro”. Forse, per tornare a ragionare a sinistra, servirebbe poter dibattere con liberali di quella stoffa (ad averne!).

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