Dopo che il dibattito sulla «verità» al cinema ha dominato, in modo più o meno tendenzioso, gran parte della campagna per l’ultimo Oscar, Servire la verità con l’immaginazione è il titolo di un lungo articolo del critico di cinema A. O. Scott dedicato (sul New York Times di domenica) alla rielaborazione estetica delle realtà nel cinema, di fiction e non. Il pezzo è meno interessante per le sue conclusioni (non originalissime ma condivisibili: Scott chiede «più arte e meno giornalismo»), che come segno di una zeitgeist in cui l’ultimo film con James Franco e Jonah Hill (True Story, un indie americano tratto da un fatto di cronaca), la serie HBO The Jinx, l’animato Waltz With Bashir e i documentari The Act of Killing (sulle atrocità del regime nell’ Indonesia anni sessanta) e The Missing Picture (la Cambogia dei Khmer Rouge) possono essere parte di uno stesso argomento.

Dai reality, ai programmi dei festival generalisti, ai palinsesti Tv, al boom del biopic, «la realtà», oggi, sembra la moneta che tira di più. E, con essa, il cinema che l’ha sempre tradizionalmente più rappresentata. A confermare la moda del documentario, persino il trendissimo regista Noah Baumbach si è sentito in dovere di usarlo come sfondo della sua ultima commedia, While We’re Young. Il soggetto del film è la (patetica) fascinazione di due coniugi quarantenni (Ben Stiller e Naomi Watts) per un’iperattiva, impossibilmente perfetta, coppia di millenials (Adam Driver e Amanda Seyfried). Ma, in osservanza del corrente dibattito culturale, Baumbach ha fatto del personaggio di Stiller un documentarista da dieci anni idealisticamente al lavoro sullo stesso progetto, di Driver quello del giovane, spregiudicato, arrivista che gli ruba l’idea e la gloria; e ha affidato a Charles Grodin il ruolo di un mitico, ineffabile, pioniere della professione, una sorta di Al Maysles o D.A. Pennebaker, che alla fine –ricevendo un’onorificenza al Lincoln Center- fa un lungo discorso sul cinema e……la verità.

Che, aldilà dei circuiti di settore, un pubblico sempre più allargato abbia accesso a un cinema (e a un’idea di cinema) complessa, ibrida, dialettica, meno imbrigliata in categorie, è una buona notizia, oltre che un riconoscimento nei confronti di autori come Fred Wiseman (nel 2014, il primo documentarista nella storia della Mostra di Venezia a ricevere un Leone d’oro alla carriera) che, da sempre, si sono posti al di sopra di quelle categorie.

Da due anni, questa visione espansa, avventurosa, problematica del documentario è oggetto di Art of the Real, un festival ideato dal direttore della Lincoln Center Film Society, Dennis Lim, proprio per proporre un antidoto alle accezioni più letterali, giornalistico/informative del cinema di non fiction. Conclusasi domenica con la proiezione dell’ultimo lavoro della regista di San Francisco Jenni Olson, The Royal Road, un percorso libero nella storia della California che spazia dal porto industriale di Oakland a Pasadena, dal missionario francescano Junipero Serra a Vertigo di Hitchcock e Sans Soleil di Chris Marker (presentato insieme a corti di Mark Rappaport su Anita Ekberg e Douglas Sirk), l’edizione di quest’anno era nuovamente un mix di film nuovi e programmi retrospettivi.

Accanto, tra gli altri, a recenti lavori di Ben Russell (Greetings from the Ancestors), Peggy Awesh (Kissing Point), Matt Porterfield (Take What You Carry), Alain Cavalier (Le Paradis) e Joao Pedro Rodriguez (Iec Long), e a un ampio omaggio a Agnes Varda, è sembrata particolarmente azzeccata una finestra dedicata alla pratica della ricostruzione drammatica, Repeat As Necessary: The Art of Reenactment. Comunemente associato al docudrama tv, specie quello a sfondo criminale, il reenactment, in tempi recenti, è stato internazionalmente «rinobilitato» da documentaristi come Rithy Panh e Joshua Oppenheimer, che ne hanno fatto il soggetto implicito di film come The Missing Picture e The Act of Killing. Andrew Jarecki l’ha usato parecchio, alternandolo liberamente (come se si trattasse di un linguaggio unico) a riprese dal vero e a materiali d’archivio, nella nuova serie HBO The Jinx: The Life and Deaths of Robert Durnst, in cui Jarecki ha rivisitato quello che fu già il soggetto di un suo film di fiction, All Good Things ( 2010), e cioè la storia dell’erede di una ricca famiglia di Manhattan, accusato di tre omicidi per cui però nessuno è riuscito a condannarlo (la fortuna di Durnst potrebbe essere finita: in seguito a nuovi indizi presentati dal doc è stato arrestato).

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Tra i film proposti nel suo Repeat As Necessary, un programma ricco di storia, forse un po’ rigido, ma affascinante, e un importante «assaggio» su un tema che merita altre variazioni, Lim ha incluso, per esempio, un classico del genere come Edvard Munch (1974), dell’inglese Peter Watkins, in cui la vita e l’arte del pittore norvegese vengono raccontati in un collage di tre ore (erano quasi quattro nella versione andata in onda in tv) che sovverte le barriere tra sceneggiato in costume e reportage in una fusione poetica di entrambi. Più letterale – teorica- la ricostruzione drammatica secondo l’artista di Singapore Ming Wong che in Angst Essen (2008) e Lerne Deutsch Mit Petra von Kan (2007) rimette in scena –con se stesso nei ruoli di tutti i protagonisti- alcune sequenze dei melodrammi fassbinderiani La paura mangia l’anima e Le lacrime amare di Petra Von Kant. Mentre James Benning in Landscape Suicide (1986), un film che rimanda inevitabilmente al capolavoro true crime di Truman Capote In Cold Blood, sovrappone alle immagini mute di paesaggi americani le voci di attori che leggono stralci delle testimonianze nei processi a Bernadette Protti (una studentessa che, nel 1984 uccise un compagno di liceo che l’aveva insultata) e del famoso serial killer del Winsconsin Ed Gain.

Uniti in un doppio programma erano invece Inextinguishable Fire di Harun Farocki (1969), sul funzionamento di una fabbrica di prodotti chimici da cui arriva il napalm, e il suo remake, inquadratura per inquadratura, tradotto in inglese e diretto da Jill Goodmillow, What Farocki Taught Me nel 1998.

Da segnalare, in un piccolo omaggio alla regista Elisabeth Subrin, in particolare Lost Tribes and Promised Lands (2010), in cui alle immagini girate da Subrin a Brooklyn nei giorni successivi all’attentato dell’11 settembre si uniscono quelle girate, in sequenza, negli stessi luoghi e con la stessa 16mm, nel 2010, con un effetto che sottolinea, insieme ai cambiamenti della gentrificazione ma anche di uno stato d’animo; e Sweet Ruin (anche lui in 16mm), una libera interpretazione del film mai realizzato di Michelangelo Antonioni Tecnicamente dolce, con l’attrice Gaby Hoffman (Girls) in ruoli che Antonioni aveva immaginato per Maria Schneider e Jack Nicholson.