Si intitola Ballata per le nostre anime (Mondadori, pp. 348, euro 19.50) ed è il terzo e ultimo romanzo scritto da Mauro Garofalo, classe 1974, giornalista e docente di scrittura creativa, oltre che collaboratore del quotidiano La Stampa. Nella copertina del libro c’è un uomo dall’aspetto solitario ai piedi di un grande albero spoglio e spettrale; scopriamo, leggendolo, che il protagonista è una creatura dal carattere mite ma, deciso a vendicarsi, assassina sette persone e si concede alla macchia.
Abbiamo raggiunto Mauro Garofalo per qualche domanda.

«Ballata per le nostre anime» ha come sfondo una storia vera. Come mai l’ha scelta?
Quando mi hanno sottoposto la vicenda del Vendicatore della Val Brembana, Simone Pianetti, ho avuto molte remore a narrarne la storia. Fin lì avevo scelto e narrato vicende di eroi del popolo, dalla condotta e dall’estetica politica. Qui non avrei potuto usare le solite leve, ho scelto uno spazio narrativo di «scomodità», il terreno scivoloso del non conforme. Il mondo immaginario del fuori. Una storia esterna, un personaggio non mio, una vicenda in cui non c’era un eroe ma, forse, semplicemente un uomo, seppur stigmatizzato nel suo giorno di ordinaria follia.
Non mi sono sentito certo Diogene, ricordo però di aver immaginato che dietro ogni vicenda si nasconde una nascita, una crescita, sogni infranti, ginocchia sbucciate, amori. Ho cercato di vedere il tutto, e non solo l’indizio. L’immagine dell’intero, l’uomo solitario ai piedi del grande albero invece che solo il fucile nella mano destra.

A parte i gusti musicali che coltiva – Samuel dei Subsonica e Morgan, di cui ha curato due biografie – questo è il terzo romanzo nel quale si concentra su storie di personaggi in fuga o in lotta col mondo, tre caratteri che si schiantano contro la realtà: Johann Rukeli Trollmann, un pugile sinti al tempo del nazifascismo, Bosco, un cowboy maremmano negli anni dell’Unità d’Italia, ora Simone Pianetti, un bergamasco della Val Brembana. Cosa c’è che le interessa di queste figure?
Il tempo che è passato in mezzo, quel che ho perso e tenuto. Sono due snodi narrativi, l’accettazione della sconfitta che non vuol dire perdere, ma sapere di poter accettare il rischio. E poi quello che tieni ti dà forma. La musica invece rimane sempre. Mi ha cresciuto, e ognuno sbaglia come può. Rivendico il mio passato new wave ed elettronico, così come il grunge, allo stesso modo in cui oggi prediligo l’indie e il jazz, i Kaleo e Gershwin, Dimartino e Thelonious Monk, i La Municipàl e i Pearl Jam con tutta la loro capacità di narrare l’oggi: la crisi climatica, la politica, la deriva del mondo.
Scelgo le storie anche per la musica, il ritmo dei personaggi, il tempo che mi schiudono. Il pugile era la seconda guerra mondiale, la resistenza, il mio antifascismo. Il cowboy era una promessa al me bambino, la Maremma, l’epica stracciona contro il capitale. La Ballata mi ha permesso di parlare della meschinità delle anime, mi ha dato la possibilità di indagare cosa significhi per me fare narrativa contemporanea, ho scritto con in testa un tempo dispari, così ne è venuta fuori una forma-romanzo sghemba, dato dalla somma di voci diverse, cambi di prospettiva, mi interessava il piccolo, il minore, il nascosto come protetto e segreto.

Proviamo ora a focalizzarci sulla sua visione del mondo. Semino due sentieri, veda lei se li può percorrere o se è meglio evidenziarne altri: una società corrotta e violenta, una natura che richiama costantemente a sottrarsi dal consesso umano…
La mia lotta politica negli ultimi anni si è spostata tutta sull’ambiente. Dopo essermi occupato di underground ho scelto di impegnare tutte le mie risorse nel raccontare gli uomini e l’habitat, la relazione fra l’umanità – le illusioni, la guerra, il Male che è in grado di generare, la grandezza del genio dell’uomo – e la Natura ai tempi dell’Antropocene, l’impatto delle nostre azioni. Mi hanno sempre attirato i sentieri della letteratura, le biforcazioni dei boschi narrativi possibili, e l’implicito selvatico, la comprensione che siamo parte di un Tutto, in accordo al De rerum natura di Lucrezio. Questo prevede l’arricchimento del linguaggio: per comprendere le montagne dovrai imparare le nuvole, per intuire la volpe dovrai sapere il bosco, aver respirato il vento.
È uno slittamento di sintassi. Con la scrittura cerco la parità dei regni, le rocce che tengano la memoria del pianeta, quanti altri corpi avranno percorso i nostri stessi passi. Mi sembra bello pensare che prima di noi vi sia stato qualcuno, e che domani ci sarà. Per certi versi restituisce un senso al perché siamo qui ora, esattamente, fino a un secondo fa. O domani.