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Le bacchettate di Biko junior

Le bacchettate di Biko juniorUn bambino saluta il presidente Botha

Intervista Parla Hlumelo, figlio di Steve, imprenditore che accusa il suo paese e lamenta l'emergenza più grave, quella dell'istruzione

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 15 giugno 2013
Rita PlanteraCAPE TOWN

Due decenni dopo la fine dell’apartheid, il Sudafrica fa ancora i conti con le politiche di un regime resosi responsabile della pianificazione e realizzazione di un sistema strutturato con le ineguaglianze socio-economiche, architettato ad arte per costruire una società basata sull’esclusione della maggioranza dalla distribuzione delle risorse, talmente strategico da fare dell’istruzione il vettore delle discriminazioni socio-economiche a lungo termine. Tuttavia, i crimini economici alla base, benché rappresentino il motore di quelle politiche, furono ignorati sia dalla Truth and Reconciliation Commission (Trc) che dall’African National Congress (Anc) che preferì rimandarne la discussione e la risoluzione. Leggi come il Bantu Education Act del 1953 hanno sgranato e radicato livelli di povertà e di diseguaglianza creando masse di lavoratori senza competenze che contribuiscono a formare in modo predominante la società del post-apartheid. Milioni di poveri – che dal 1994 ancora aspettano di essere «liberati» – subiscono gli strascichi di un meccanismo pianificato come tale, le non-scelte di organismi come la Trc, le scelte delle leadership dell’Anc – che negoziarono con l’élite politica dell’apartheid gli accordi per l’avvio del nuovo iter politico – e le responsabilità di chi da allora si è succeduto al governo. Forti ineguaglianze sociali, alti tassi di disoccupazione e di criminalità, povertà, livelli di istruzione e scuole sotto gli standard: un paese smarrito ciò che è rimasto della nazione arcobaleno. Una società, quella sudafricana, nata dalla capacità della maggioranza nera di travalicare le differenze etniche, linguistiche e religiose nel fare scudo comune nella lotta per la liberazione e nel processo di costruzione nazionale a cui paradossalmente è stata la minoranza bianca a unirsi. The Great African Society. A Plan for a Nation Gone Astray (Jonathan Ball Publishers, 2013) è un libro vivo e interessantissimo che si rivolge soprattutto ai «born frees» e all’establishment politico ed economico, un’analisi del presente attraverso il passato e un programma di intervento per una «great african society», meritocratica e realmente libera. L’autore è Hlumelo Biko. Uomo d’affari e filantropo, attivamente impegnato in progetti educativi, Hlumelo è il figlio di Mamphela Ramphele e di Steve Biko – il leader del Black Consciousness Movement (Bcm), martire nazionale che il regime dell’apartheid «per prolungare la vita all’apartheid dovette uccidere», come scrisse Nelson Mandela nel 2002. Lo abbiamo incontrato a Cape Town.

L’istruzione è ancora oggi una delle emergenze più grandi in Sudafrica. Credi che dal 1994 le responsabilità siano ancora da attribuire esclusivamente al regime dell’apartheid?

Nel capitolo «Original Sin» del mio libro traccio il confine tra le colpe dell’apartheid e quelle di dell’African National Congress (Anc). Il grande errore che Anc ha fatto, una volta al potere, è essersi sbarazzato di insegnanti qualificati, sostituendoli con quelli formatisi secondo il modello educativo introdotto dalla Bantu Education Act, in base al presupposto che l’insegnante nero fosse di per sé sinonimo di cambiamento. A mio avviso, la trasformazione avviene quando lo studente è messo in condizioni di apprendere e sviluppare competenze. Sarebbe preferibile avere alunni capaci e non insegnanti neri a tutti i costi. Non sto dicendo che tutti i docenti neri sono incapaci di svolgere il proprio lavoro, molti sono fantastici. Resta tuttavia il fatto che la maggior parte si è formata secondo il sistema educativo bantu. L’apartheid è responsabile della formazione di quegli insegnanti e Anc di averli portati in classe.

 Perché Anc ha favorito questo sistema?

Perché Sadtu (South African Democratic Teachers Union), che rappresentava la lobby degli insegnanti neri all’interno di Cosatu (South African Trade Unions), voleva che Anc impiegasse i suoi insegnanti subito. E dunque Anc si trovò a scegliere se mantenere i vecchi docenti o mandarli via per far posto ai nuovi.

Cosa suggerisci di fare per sradicare questa situazione?

Ad oggi, non abbiamo alcun dato che attesti la reale preparazione degli insegnanti, sappiamo solo che è di livello basso. Per prima cosa valutiamo la loro preparazione somministrando dei test ad hoc. Se si ottengono dei risultati di molto inferiori allo standard richiesto, allora bisogna liberarsi di questa gente, pensionandola. Per gli insegnanti che invece ottengono un risultato di poco lontano dalla soglia stabilita, si investa nella formazione. Bisognerebbe inoltre aprire ai docenti che provengono da altri paesi, come Malawi o Zimbabwe, e spingere le aziende a investire il loro capitale Bee (Black Economic Empowerment) nelle scuole, permettendo loro in cambio di ottenere crediti Bee. Molte aziende sarebbero più inclini a investire in programmi del genere direttamente e non indirettamente attraverso le tasse.

Nel tuo libro sostieni che la Truth and Reconciliation Commission (Trc) ha perso l’occasione di ottenere un risarcimento per i crimini economici commessi dal regime dell’apartheid. È corretto sostenere che Anc abbia agito per interesse politico?

Penso che si sia trattato di un compromesso per entrambi; che Anc avesse paura di ritardare il proprio insediamento al governo e che l’introduzione tra gli altri anche dei crimini economici avrebbe potuto rallentare il raggiungimento di un accordo. Credo che abbiano fatto un errore di calcolo. Infatti, se anche si fossero impiegati tre o più anni ne sarebbe valsa la pena perché non ci saremmo ritrovati nella situazione attuale.
Nel 1994 il problema da affrontare era la scarsità. Avevamo buoni ministri, molto intelligenti, ma mancavano le risorse finanziarie necessarie per agire in modo da ottenere un cambiamento a lungo termine.ù

La corruzione, altro problema…

È imponente. Tu sei italiana e sai cosa significa corruzione. La questione di fondo riguarda gli incentivi necessari per arrestare il fenomeno. Si potrebbe proporre un accordo di riservatezza in cambio di un’amnistia.
Nell’accordo il corrotto dovrebbe dichiarare nero su bianco tutte le attività illecite, le dimissioni e l’impegno a non lavorare mai più per il governo. In cambio il governo gli risparmierebbe prigione e fisco.

In Sudafrica la corruzione è un fenomeno culturale?

Non ha ancora raggiunto una dimensione culturale, ma ci stiamo avvicinando. Se si riesce a sconfiggerla ai livelli alti, allora è possibile far rispettare la legge ai livelli inferiori. Se non si fa un’operazione di pulizia all’interno del governo ora allora bisognerà poi intervenire su intere generazioni.

Che ruolo dovrebbe avere in Sudafrica la Banca Mondiale?

Attualmente il problema più grande del paese riguarda l’istruzione ed è costituito dalla crisi nel settore della formazione degli insegnanti e in quello delle infrastrutture scolastiche. La Banca Mondiale si trova nella posizione perfetta per risolvere il problema delle infrastrutture scolastiche per cui normalmente si spende solo nella manutenzione e in marginali miglioramenti. C’è invece bisogno di un approccio big bang. E non disponendo il governo di risorse finanziarie sufficienti per farlo, bisognerebbe chiedere un prestito. Non esiste miglior investimento di quello in un sistema educativo di alta qualità a favore delle generazioni future. Ma non si fa a causa di una posizione ideologica.

 Di quale posizione ideologica parli?

La paura delle istituzioni finanziarie occidentali. Penso si tratti del fatto che la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale hanno svolto un ruolo che ha danneggiato l’Africa negli anni ’70 e ’80, fornendo programmi di aggiustamento strutturale che hanno costretto i governi a tagliare la spesa pubblica al momento sbagliato e nel modo sbagliato. Oggi però le cose sono cambiate e anche il quadro geopolitico.

A marzo si è svolto a Durban il summit dei paesi del blocco Brics. Credo che il Sudafrica, nonostante sia di fatto la più grande economia dell’Africa, stia rischiando di diventare la «Cenerentola» dei Brics sotto giogo cinese. Sei d’accordo?

Il nostro ingresso tra i paesi del blocco Brics è uno dei più alti risultati dell’amministrazione Zuma. Perché sta dando al Sudafrica la possibilità di svolgere un ruolo tra quei paesi che producono la metà del Pil mondiale. Ora si tratta di capire come il Sudafrica intende svolgere quel ruolo, se è abile a condurre negoziazioni che portino benefici anche al resto dei paesi africani. Sarà questo a determinare il successo o il fallimento del suo ingresso tra i Brics.

Hai lavorato per la Banca Mondiale. Cosa pensi della prospettiva di creare una Banca Brics?

Ci ho lavorato per un breve periodo. Il Sudafrica ha proposto di investire 10 milioni di dollari per la sua creazione. Quella cifra dovrebbe essere investita nel campo dell’istruzione. Se il livello del nostro sistema d’istruzione raggiunge quello delle nostre infrastrutture, il Sudafrica non sarà la Cenerentola dei Brics.
l Che ruolo dovrebbero svolgere attualmente i sindacati? I sindacati si sono ridotti a entità che si occupano solo della contrattazione dei salari. In passato hanno svolto un ruolo strategico e molti dei leader di Anc provengono da lì. Da quando negli anni ’90 sono entrati a far parte della struttura politica svolgono un ruolo di pura negoziazione. Certo, la contrattazione rientra nei loro compiti, ma non li esaurisce. I sindacati dovrebbero esercitare un ruolo più strategico, cercando di individuare i bisogni reali del paese così come dovrebbero promuovere il dialogo tra il governo e i privati.

 I sindacati devono cambiare modello e prospettiva. E l’industria mineraria?

Secondo recenti statistiche, il tempo impiegato dai minatori per raggiungere i siti sotterranei delle miniere è maggiore di quello speso a svolgere il lavoro. Il lavoro nelle miniere e il processo di estrazione così come era al tempo dell’apartheid non è più sostenibile. Imprese e sindacati dovrebbero darsi da fare per la riorganizzazione di questo settore in maniera razionale.
Secondo l’ultimo rapporto dell’Equity Employment Commission, per i settori pubblico e privato, nel 2012 solo il 12,3% delle posizioni di top management risulta occupata da neri a fronte del 72,6% di quelle occupate dai bianchi e questo nonostante ci siano leggi come l’Employment Equity Act del 1998 a tutela dei lavoratori neri.
Ci sono due problematiche da affrontare in termini di posizioni lavorative: domanda e offerta. Quando si tratta di management e dell’assunzione di dirigenti il problema riguarda più la richiesta che la disponibilità. Davvero non ci sono neri in Sudafrica che abbiano acquisito in questi 18 anni competenze adatte a ricoprire un ruolo manageriale? Non ha senso. Io ne conosco molti. Il punto non è questo. Il fatto è che alla maggior parte di queste persone non vengono affidati incarichi dirigenziali, non vengono inserite nel processo di tutorato, di avviamento e di formazione mirata che è invece importante per avere accesso a delle posizioni di top management. A favore di altri. In un’economia dominata in maggioranza da persone dello stesso tipo, si preferisce assumere chi condivide lo stesso modo di vedere le cose, la stessa esperienza e la stessa formazione.

Sei il figlio di Steve Biko e Mamphela Ramphele. Cosa significa questo per te?

Sono cresciuto in maniera normale e non ho pensato a cosa potesse significare fino ai tempi dell’università. È allora che ne ho realizzato il senso. Ma la mia personalità era già formata ed è difficile cambiare quando hai più di 18 anni. Essere figlio di Steve Biko e Mamphela Ramphele vuol dire avere opportunità che altra gente non ha, ma allo stesso modo avere responsabilità che altri non hanno. Non posso essere un uomo d’affari e ignorare di avere una responsabilità sociale per cambiare positivamente le cose. Fortunatamente, nella mia vita opportunità e senso di responsabilità convivono in egual misura.

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