Il cinema poteva essere considerato alla stregua di un nutrimento o di una medicina, un antibiotico – come lo intendeva Ivan Martinac, figura eminente e poliedrica dell’avanguardia croata degli anni ’60 – da somministrare «solo a chi ne ha bisogno e da proibire a chi non ne sente la necessità». Oppure (parzialmente) negato, almeno nella sua accezione di racconto borghese, quale espressione decadente del capitalismo, secondo la teoria dell’«antifilm» su cui si andava dibattendo nel cenacolo di Mihovil Pansini, medico e cineasta amatore, fondatore nel 1962 del Genre Film Festival che riuniva ogni due anni a Zagabria cineasti sperimentali prevalentemente europei, ma anche d’oltreoceano.

Nella cornice del festival I Mille Occhi, conclusosi due giorni fa a Trieste, la sezione intitolata «Castelli di sabbia» curata da Mila Lazic si è offerta allo scandaglio dei rapporti tra le avanguardie serbe e croate che, tra la fine degli anni ’50 e durante tutti gli anni ’60, hanno animato la scena underground dell’allora Jugoslavia di Tito.

Avanguardie fiorite nel clima di relativa apertura che il Paese ha vissuto dopo la rottura con Stalin, verso la fine degli anni ’40. Soprattutto nei cine-club, ma anche in altri ambiti, sull’onda di una spinta modernista favorita dal contesto storico, si sono sviluppati movimenti artistici per loro stessa natura marginali rispetto alle forme «ufficiali», ma anche per questo più liberi, passati spesso inosservati attraverso le maglie censorie della sorveglianza repressiva del regime.

I due centri principali di produzione cinematografica d’avanguardia croata erano Spalato e Zagabria, ma non sono mai mancate le occasioni di contatto e di reciproca influenza con altri «registi» – usando un termine forse improprio o riduttivo – che si muovevano su binari paralleli nelle città di Belgrado, Lubiana e Sarajevo. L’approccio al cinema di questo eterogeneo gruppo di sperimentatori era soprattutto teorico. Intorno al film, sia nella sua concretezza che intorno al concetto stesso , si discuteva animatamente e il dibattito su forma e discorso, contenuto e linguaggio, su cosa dovesse o non dovesse essere un film, si faceva piuttosto acceso. A volte, secondo un’accezione debordiana, si superava il concetto stesso di arte che si tramutava in gesto politico.

I Mille Occhi ha fornito più di un’occasione per addentrarsi in questo sottobosco poco noto. Oltre ai documentari Martinac di Zdravko Mustac (2015) e Mihovil Pansini – Brodovi ne pristaju (2008), che hanno permesso di saperne di più su alcuni dei protagonisti del movimento attraverso interviste e testimonianze dirette, ampio spazio hanno trovato i lavori dell’epoca proposti rigorosamente su supporto originale.

In Scusa signorina (1963) il già citato Pansini diventa casuale «uomo con la macchina da presa» mentre attraversa Zagabria con una camera appesa alla giacca; nella Trilogia Belgradese (1964), lo studente di architettura Tomislav Gotovac rivela un’ossessione per il prevalere della forma (anche in termini geometrici) sul contenuto.

Ivan Martinac, accreditato come artista e intellettuale, regista, sceneggiatore, montatore, cameraman, maestro del film amatoriale, poeta, giornalista, architetto, designer, pittore, astrologo, scacchista e polemizzatore, autore di 71 corti e un solo lungometraggio, trasferitosi per amore da Zagabria a Belgrado, dove ha lasciato il segno influenzando gli autori dell’Onda Nera, si oppone a una fruizione allargata dell’opera d’arte sentenziando sul «bisogno del cinema».

Infine Lazar Stojanovic, nel suo Plasticni Isus sfida il regime introducendo per la prima volta nel cinema jugoslavo un nudo maschile e argomenti «proibiti» come promiscuità e omosessualità. Secondo il metodo delle attrazioni, accostava immagini delle manifestazioni studentesche del ’68 alla brutalità della polizia, discorsi di Tito ad alcuni momenti della quotidianità di Tom, uno zagabrese a Belgrado appassionato di cinema e squattrinato, mantenuto dalle donne e diffidente rispetto alle istituzioni, rendendo in questo modo palese la propria posizione ideologica nei confronti del potere.

Dopo la sua realizzazione, infatti, il film viene confiscato e Stojanovic processato e condannato, nel 1973, a tre anni di prigione. Proibito in Jugoslavia per la sua carica provocatoria, politica, culturale e sessuale, è riemerso solo in anni recenti ed è stato finalmente riproposto, nel capoluogo giuliano, in tutta la sua deflagrante carica eversiva.