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Le autonomie regionali mimano la forma prodotta dalla crisi

Riforme L’autonomia differenziata risponde in modo debole e difensivo al processi indotti dalla Rete nella globalizzazione dello spazio-territorio. Con il Sud, cavia da laboratorio

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 24 ottobre 2019

Nell’Ottocento, spiegava Marx, bastava la distanza tra il luogo di produzione e il mercato a trasformare in merce un oggetto. Oggi, per molti versi, è del tutto opposto, a partire dall’avvento della Rete, che proprio mezzo secolo fa iniziava a sostituirsi allo spazio come questo a suo tempo si era sostituito ai luoghi.
Un evento, quello dell’avvio dell’informatizzazione dello spazio, con l’ormai avvenuta inscrizione della sua logica nel più implicito senso comune, nel “regno vasto e insondabile” non del caso, come scriveva Borges, ma di quel che chiamiamo normalità. Salvo poi accorgersi che analisi e decisioni su questioni di grande portata, e che riguardano il futuro del nostro Paese, non tengono affatto conto del nuovo fluido nomos della Terra che la Rete produce, e sembrano ancora reagire secondo un irriflesso, meccanico modello stimolo-risposta alle sollecitazioni e alle frizioni che investono oggi il territorio statale.

Quel che più sconcerta a proposito dei progetti di autonomia regionale differenziata avanzati negli ultimi mesi è appunto il loro carattere banalmente mimetico rispetto alla forma prodotta dalla crisi. La soluzione più semplice e immediata appare a molti il ritrarsi nel proprio “particulare”, difendere il frammento, appunto la fortezza regione, valorizzare all’interno degli enti territoriali intermedi la straordinaria capacità di manipolazione simbolica ereditata dai nostri antenati e che sul mercato globale è oggi la merce più preziosa – perché è questa la vera posta in gioco.

Una tale strategia non soltanto è puramente difensiva ma sembra non aver appreso nulla da quella che è stata fin qui la vicenda del rapporto tra lo Stato nazionale territoriale centralizzato chiamato Italia e gli agenti della globalizzazione, a partire dalle prime multinazionali capaci di colonizzare già negli anni Sessanta del Novecento il Mezzogiorno, disseminando grandi impianti a ciclo integrato dell’industria di base: impianti che, motivati dalla possibilità di superprofitti basati sul minimo prezzo della forza lavoro, erano saldamente inseriti nel loro specifico canale, nella propria filiera internazionale, e perciò concepiti per essere programmaticamente privi di qualsiasi reale saldatura, invece, con le economie e le culture locali.

Dunque nessun sviluppo indotto, che al contrario ci si aspettava, fu di fatto possibile: l’incremento della domanda di manodopera avrebbe automaticamente cancellato, con l’aumento dei salari, proprio il vantaggio ( per gli investitori esteri) all’origine dell’impianto. Si può dire in termini ancora più sintetici, ma non per questo meno precisi: il territorio statale resta ancorato alla geometria euclidea, le multinazionali invece praticano geometrie non euclidee, come tutti i processi connessi allo sviluppo del capitale globalizzante, in grado di mettere al lavoro proprio sulla base di tale differenza i soggetti territoriali di marca statale, e a maggior ragione i loro ritagli.

È vero che tutti o quasi gli Stati sono oggi percorsi da tensioni politiche che scorrono lungo faglie territoriali modellate da processi di antica data e lunga durata. È vero insomma, parafrasando Bruno Latour, che non siamo mai stati moderni, cioè che nessuna formazione statale è stata fin qui in grado di adempiere fino in fondo il programma territoriale della modernità, nemmeno ( tantomeno) attraverso la dittatura. Ma è anche vero che da quando esiste la Rete il numero degli Stati che si spartiscono la faccia della Terra è molto aumentato, anche per effetto della decolonizzazione. Allora a che punto è davvero la globalizzazione?

Le logiche e le pratiche globali stanno oggi a quelle spaziali come queste stavano ( e nella misura in cui resistono stanno) a quelle locali, nel senso che gli stessi spazi statali sono divenuti ormai, nella loro totalità, semplici luoghi, sussunti nella loro interezza in quanto tali dal controllo dei flussi. Così la globalizzazione insegna che dalla modernità si esce soltanto tentando di portarla a compimento. E ciò dovrebbe valere anche per le politiche, non soltanto territoriali, degli Stati civili.

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