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Le anime in pena degli scrittori rifiutati e la leggerezza vagabonda di Giovanni Mariotti

Le anime in pena degli scrittori rifiutati e la leggerezza vagabonda di Giovanni MariottiMimmo Paladino, «Senza titolo»

Scrittori italiani «I manoscritti dei morti viventi», da La nave di Teseo

Pubblicato più di un anno faEdizione del 30 aprile 2023

Non vi fossero libri come quelli di Giovanni Mariotti, vi sarebbe da temere che i romanzieri non sapessero più esprimersi con levità. Se gli autori dei contes philosophiques, nei quali le idee portavano le vesti variopinte dell’invenzione fantastica, ne possedevano in abbondanza e i moderni, alle volte, una buona porzione, i contemporanei, specialmente in Italia, pochissima. Le riflessioni negli ultimi tempi hanno, infatti, preso di rado, qui da noi, la forma della creazione estrosa. Né i pensieri, nella trama d’una storia, hanno saputo aggrovigliarsi con la leggerezza vagabonda d’un brandello di seta sul ramo d’un albero.

Questo I manoscritti dei morti viventi (La nave di Teseo «i Delfini», pp. 157, euro 17,00) parte, invece, da un presupposto favoloso: le anime degli scrittori reietti ristagnano sulla terra: in accordo con quanto asserito nell’Ottocento dal famoso spiritista Allan Kardec, il retaggio delle passioni, ostacolandoli nell’ascesa alle più perfette sfere, spinge i morti ad aggirarsi fra i vivi, come il tetro fantasma d’Elsinore, sebbene codesti spiriti, invece che vendetta, si limitino a reclamare un po’ d’attenzione per i loro inediti. Alcuni sono truculenti e imperiosi, altri timidi, come il primo col quale la protagonista fa conoscenza, quando, inseguita da una muta di cani feroci, ne viene salvata come Lucia da Edgardo di Ravenswood. Mentre viene riaccompagnato in macchina, l’uomo comincia il racconto d’un libro rifiutato, scritto da un amico, che potrebbe anche essere lui, troppo pudico per confessarlo senza il soccorso d’un senhal. Eppure, nulla impedirebbe di spiegare l’evento paranormale come un’allucinazione, non fosse che lo scartafaccio viene effettivamente trovato in un vecchio armadio e pubblicato: s’intitola semplicemente Libro e chiunque lo legga vi trova un po’ di sé stesso, quasi si trattasse di «una sorta di strumento ottico che viene offerto al lettore perché possa discernere dentro di sé cose che senza il libro non avrebbe mai visto». Anche il suo autore, d’altra parte, aveva aspirato, come Axël d’Auërsperg, a non uscire mai da quella condizione di pura virtualità d’esistenza in cui è il germe d’ogni possibile.

Queste e altre stravaganze della trama fanno capire come i risvolti del racconto in fondo non siano se non divagamenti e riflessioni del genere che potrebbe trovarsi in un Montaigne o in un Lamb, cioè non sistematici, sulla funzione della scrittura e sull’editoria, annotazioni acute, benché dette con l’aria di non volerlo essere, perché subito lievitate in spunti aerei e affabulatòri. Così la narrazione s’adegua al trotto del pensiero, con continui rivolgimenti e sorprese. Sotto questo aspetto, l’inventario dell’autore è incredibilmente vasto e la libertà che gli deriva dall’aver creato un universo poroso, nel quale l’ordinario è costantemente visitato dallo straordinario, pressoché illimitata.

A oggi, d’altra parte, Mariotti è forse l’unico scrittore italiano a padroneggiare ogni meandro della letteratura. E tanto ne conosce i codici e le forme da poterne prendere la parte che vuole, facendone una materia duttile e leggera, come di lamine delicate che possano essere piegate e lavorate a piacimento per modularvi qualsiasi disegno. Altri, se provano a contaminare le strutture narrative, subito affoltano la pagina e fan sentire il segno della saldatura, mentre la prosa di Mariotti, per la sua disinvolta ariosità, fa pensare a un’arte soffiata come in miracoli di Murano. E si guardi soltanto alla naturalezza con la quale nella vicenda gotica s’apre quel diorama di quieta vita provinciale, lievemente malinconica, che è il racconto dello spettro, ambientato in una «antica e timorata città dove da tempo immemorabile la gente non aveva cessato di trafficare e fornicare fra mille cautele». Varietà e ricchezza di moduli dalla quale ipotizziamo che la finzione romanzesca sia per l’autore qualcosa di simile a uno scintillante e mercuriale mare, infinitamente pescoso, in cui ciò che avrebbe potuto essere scritto è tanto superiore a quel che effettivamente lo è da sommergerlo e inghiottirlo, il che accade nel finale.
In un vecchio insidioso, indovinello si domandava se pesasse più un chilo di piume o uno di piombo. Allo stesso modo, una eguale dovizia di pensiero può raccogliersi in un novellare pesante o aggraziato. Mariotti ha scelto la grazia: la via delle piume.

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