Le affinità elettive di Walter Benjamin
Walter Benjamin Quel filo rosso che va dal saggio sull’opera d’arte alla storia della fotografica
Walter Benjamin Quel filo rosso che va dal saggio sull’opera d’arte alla storia della fotografica
Walter Benjamin si è tolto la vita perché gli fu negato un passaggio verso il mondo libero. Già poco integrato durante l’esilio parigino, avrebbe trovato un accesso autentico all’America? Durante tutta la sua vita cercò di accogliere istanze impossibili, com’è noto, quelle del marxismo e dell’ebraismo. Vorremmo, in modo molto schematico, rinviare a qualcuno dei testi in cui si trovano significativamente riuniti passaggio e destino.
Nelle due versioni del poema di Hölderlin che Benjamin commenta all’inizio della Prima Guerra mondiale («Il coraggio dei poeti» e «Timidezza»), si ha a che fare col poeta disarmato a cui nulla di male può accadere lungo la strada che lo conduce lì dove deve arrivare e, in seguito, con la catena di bronzo che, in questo passaggio, si forgia tra gli dei e gli uomini. L’uso del termine geschickt (inviato, idoneo) rinvia al destino che costituisce come inseparabili il canto del poeta e il popolo che si nutre di questo canto. Ma è soprattutto nel 1921, nel testo «Destino e carattere», che appare la relazione che vogliamo evidenziare. Il destino si manifesta attraverso dei segni che suppongono una rottura; un carattere inalterabile non è un destino, e gli dei sfuggono proprio alla categoria dello Schicksal. Agli uomini il destino si manifesta quando la loro vita si rivela condannata, dunque, colpevole, e una delle sue forme principali è la violenza divina ed espiatrice (vi veda l’episodio della tribù di Korah in «Per una critica della violenza»). Questa Gewalt si esprime nel più eclatante dei modi come sparizione improvvisa (si pensi non tanto alla lenta discesa nella tomba sacra di Edipo a Colono, quanto al destino della «Regina della Notte» nel «Flauto magico» di Mozart). Lo stesso testo del 1921 evoca, a proposito della morte di Niobe, la nozione di «frontiera» (tra l’umano e il divino), già l’anno precedente, però, parlando di Dostoevskij, Benjamin descriveva l’improvvisa comparsa dell’immortalità in un istante «indimenticabile», e purtroppo dimenticato, poiché la catastrofe finale sottrae all’Idiota ogni ricordo.
Il destino, con i suoi segni e i suoi presagi, domina l’intera analisi benjaminiana delle «Affinità elettive». L’acqua è centrale, e il passaggio in barca da una riva all’altra segna il destino del figlio di Carlotta che cade dalle braccia di Ottilia. Qui Benjamin presenta la «violenza naturale» sotto la sua forma più bruta. L’enigmatico episodio del bicchiere di cristallo che (durante l’inaugurazione dell’edificio che diventerà la camera mortuaria di Ottilia) viene preso al volo invece di cadere e rompersi, significa il rifiuto di un’offerta sacrificale, la colpevolezza di quelli che si attengono al Diesseits e ignorano i segni del passaggio al Jenseits . Ridotta al magico e al mitico, la «panarchia» della pura naturalità resta gestaltlos, senza vero destino. Il racconto incluso nel romanzo mostra un destino che si forma tra un naufragio e l’occasione colta di una vera Versöhnung (riconciliazione), mentre sulle teste degli eroi delle «Affinità elettive» la speranza redentrice che wegfährt, passa inutilmente, come una stella caduta dal cielo.
Dalle riflessioni di Benjamin sul compito del traduttore (Prefazione ai Tableaux parisiens di Baudelaire, 1923), si nota che la traduzione, «passaggio» da una lingua all’altra, è al contempo, per l’opera stessa, mutazione e rinnovamento, destino che lentamente svanisce quanto più le lingue «si sviluppano così fino alla fine messianica della loro storia». L’opera del buon traduttore è quella di rivelare il destino dell’opera, ma l’esempio di Hölderlin dimostra che ciò è possibile a prezzo di un crollo.
Nel 1931, nella sua «Piccola storia della fotografia», Benjamin ricorda quanto, agli inizi, fosse giudicata blasfema la fissazione chimica su di una placca di ciò che in sé è fuggevole; ma precisamente, soprattutto con l’uso del rallentatore e dell’accelerazione, la tecnica permette di conoscere la «frazione di secondo in cui si modifica un movimento», di separare quindi l’oggetto dalla sua «aura», questo singolare intreccio di spazio e di tempo che, in una sola volta, sopprime ogni distanza e permette al fotografo, erede di auguri e indovini, di «scoprire la colpa» e di «rivelare il colpevole».
Di un tono più sereno, meno segnati dalla coscienza della colpevolezza, motivi analoghi affiorano spesso nelle pagine dedicate ai «Passages» di Parigi, per esempio, a proposito della transizione tra i modi di produzione, tra i materiali di costruzione, del falanstero che diventa città. Ma bisognerebbe citare anche la «donna che passa» di Baudelaire o quell’apparizione cataclismica di Albertine in Proust. E sottolineare il ruolo di pura discontinuità nei giochi di azzardo, il «tempo maledetto» promesso a chi «investe senza aspettarsi guadagni», fatti di continue ripetizioni che impediscono di cogliere i segni nei quali si legge il destino come pienezza e compimento.
Le riflessioni finali di Benjamin nel 1940 suggeriscono che il materialismo storico, sospettato ma non rifiutato, non è in diritto di sostituire al «passaggio» degli avvenimenti un «presente che si mantiene immobile sulla soglia del tempo», se non a condizione di fare saltare il «continuum della storia» così da farvi penetrare le «schegge» di quello che fino alla fine Benjamin chiama, senza falsa vergogna, il «messianismo», essendo ben chiaro che nessun Messia entra se non dalla più stretta delle porte.
Traduzione di Fabrizio Denunzio
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