Cultura

Le affinità elettive col pensiero animale

Le affinità elettive col pensiero animaleAndrei Ilyich Kurnakov, «Turgenev», Ivan Turgenev Literary Museum, Oryol

Into the wild / 3 Dal cane di Turgenev alle fantasticherie equine del conte di Jasnaja Poljana. Fino al protagonista del romanzo «Ginseng» di Prišvin, che a contatto con l’incontaminata boscaglia della taiga sconterà l’inadeguatezza umana arrivando a innamorarsi di una bellissima cerva

Pubblicato circa un anno faEdizione del 15 agosto 2023

In una «miniatura lirica» del 1878 intitolata Sobaka (Il cane), l’ormai anziano Ivan Turgenev riandava con la memoria a una situazione che, indubbiamente, doveva essergli occorsa più di una volta, stante i suoi trascorsi di cacciatore. Durante una terrificante bufera di neve un uomo e un cane al chiuso, soli e isolati da tutti, stringendosi impauriti in silenzio, si fissano negli occhi l’un l’altro, finché i confini fra loro non si annullano: «Capisco che in questo istante in lui e in me alberga la stessa sensazione: tra di noi non v’è alcuna differenza. Siamo identici; in ognuno di noi arde e splende lo stesso, medesimo focherello». Cosicché l’autore conclude: «No! Non è uno scambio di sguardi tra animale ed essere umano. Sono due paia d’occhi identici, fissi l’uno sull’altro».

TUTTAVIA, malgrado questa situazione di inconsulta intimità, è sempre l’uomo a parlare per l’animale, facendolo obbligatoriamente partecipe di quella che, in realtà, è una sua percezione squisitamente individuale: «È come se volesse dirmi qualcosa. È muto, senza parole, non capisce se stesso – ma io lo capisco». Una sorta di prevaricazione certo innocente quella operata dal romanziere, ma tanto più significativa, se si pensa che sobaka in russo – al contrario del sinonimo pes – è femminile e quindi in italiano, a meno di non renderlo un po’ arbitrariamente con «cagna», si perde tutta quella sequela di pronomi personali femminili che conferisce al testo una sfumatura latamente erotica.
Come che sia, scrivendo Sobaka, Turgenev si rifaceva non si sa quanto inconsapevolmente al precedente di Lev Tolstoj, che già nel 1856 aveva narrato la storia del vecchio cavallo pezzato Cholstomer con un grado tale di empatia da attribuire al suo protagonista non solo ragionamenti dalla logica impeccabile, ma anche una sua dolorosa biografia. Ed era Cholstomer stesso a raccontarla – al chiaro di luna e con parole umane – ai suoi compagni di mandria: «Quando nacqui non sapevo che volesse dire ‘pezzato’, pensavo soltanto d’essere un cavallo…».
Turgenev era perfettamente al corrente delle fantasticherie equine del conte di Jasnaja Poljana, tant’è vero che, conversando nel 1881 con S. N. Krivenko, rievocò come in un giorno d’estate Tolstoj, trovandosi a passeggiare in sua compagnia, si fosse bloccato a un tratto davanti a una rozza e avesse cominciato a sciorinarne sentimenti e pensieri ipotetici: «Non solamente egli s’identificava con lei, ma costrinse anche me a immedesimarmi in quella creatura disgraziata. Non mi trattenni e dissi: ‘Sentite, Lev Nikolaevic, in un’altra vita voi dovete essere stato un cavallo’».

A SUA VOLTA, la «miniatura lirica» di Turgenev viene ripresa nell’omonima novella di Vasilij Grossman Sobaka, datata 1960 e tradotta in italiano da Mario Alessandro Curletto col titolo La cagnetta (Adelphi, 2013). In queste pagine la tendenza ad attribuire agli animali sensazioni umane (legandoli così a doppio filo alle imprese, più o meno fortunate, della nostra civiltà) raggiunge esiti grotteschi. Con larvata ironia (si spera) Grossman assegna alla sua protagonista a quattro zampe – una cagnetta randagia che, novella Lajka, verrà spedita da un équipe di scienziati nello spazio – un «pedigree» esistenziale non dissimile da quello dei suoi consueti personaggi operai. Anche lei infatti, a detta dell’autore, partecipa al terrificante balzo in avanti che il socialismo ha imposto non solo all’umanità, ma anche al mondo intero: «Probabilmente la cagnetta aveva acquisito un bagaglio di cognizioni tecniche superiori a quello posseduto da uomini esperti e capaci vissuti due o tre secoli prima di lei. Era intelligente, e in più era anche istruita. (…) Ma per la lotta in cui era costantemente impegnata, esperienza e cognizioni tecniche non erano sufficienti, era indispensabile comprendere l’essenza della vita, occorreva una saggezza di vita».
Nel volo dell’anonima cagnetta lanciata in orbita affinché «un animale, con la propria psiche» potesse «irrompere nel cosmo», la violenza perpetrata dall’uomo sugli altri esseri viventi raggiunge forse l’apice.
Questo paradigma «umanitario» d’ascendenza ottocentesca, in cui l’empatia con gli animali si fonda sulla certezza più o meno arrogante di saper leggere – proprio in quanto uomini! – nei loro pensieri, va definitivamente in crisi, quando oggetto della rappresentazione letteraria non è più un cavallo o un cane, bensì l’esemplare selvatico di una specie non addomesticata.

COSÌ È, AD ESEMPIO, in uno stupefacente libro di Michail Prišvin (1873-1954) dal titolo Ginseng (1933), tradotto da Gigliola Venturi per Adelphi nel 1979. Qui la prospettiva antropocentrica delineata a diversi livelli di maestria artistica da Tolstoj, Turgenev e Grossman appare di colpo rovesciata: il protagonista, un soldato senza nome della guerra russo-giapponese, dopo che la sua divisione è stata sbaragliata in combattimento, diserta e si rifugia nella taiga della Manciuria, in quello che sulle prime gli appare «un paradiso creato a mio piacimento». Fin da bambino, infatti, si è sempre sentito attratto dalla «natura sconosciuta» e da quell’esistenza lontana dal mondo civilizzato «in cui nasce la poesia e dove non c’è differenza sostanziale fra l’uomo e la belva». Tuttavia, a contatto con l’incontaminata boscaglia mancese comprende improvvisamente l’inadeguatezza della propria specie dinanzi alle infinite sollecitazioni sensoriali di un ambiente così rigoglioso e intatto, nonché la propria inferiorità rispetto agli altri animali: «In mezzo a tutti quei fiori e a quel ribollire di vita, io ero l’unico – così mi pareva – incapace di guardare il sole e di esprimerlo semplicemente come facevano loro».

NON SOLO: dopo essersi imbattuto in un branco di cervi pomellati (o «cervi-fiori», come li chiamano i cinesi), l’eroe resta talmente colpito da un esemplare femminile di straordinaria bellezza da attribuire a una donna sconosciuta incontrata per caso gli splendidi tratti della cerva Chua-lu: «Ancora adesso non riesco a capire come mi fosse saltato in mente, ché a sovrapporli, a disegnarli, essi non si somiglierebbero affatto». Instaurando una sorta di isomorfismo tra specie diverse in nome di una «magica combinazione, quasi un’inseparabile unione di verità e bellezza», l’io narrante, a dispetto della sua condizione di intellettuale occidentale, pare quindi incamminarsi sulla via di quella «solidarietà mistica tra l’uomo e l’animale» che, a detta di Mircea Eliade, costituisce una nota dominante della religione dei cacciatori primordiali.

ED È QUESTA STESSA armonia, prosegue Eliade in Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi, a permettere a certi esseri umani di trasformarsi in animali, di comprendere la loro lingua o di partecipare della loro prescienza e dei loro poteri occulti. Una possibilità intuita anche dal porte-parole di Prišvin, nel momento in cui ammette: «Non ero mai stato abbandonato da quella particolare sensazione che non si trattasse semplicemente di una cerva, ma anche di un fiore, e di un fiore particolare, collegato – in modo a me ancora incomprensibile – a un non rivelato potenziale della mia personalità stessa».
Innamorandosi della cerva Chua-lu, il protagonista di Ginseng sfiora la possibilità estatica di partecipare del modo d’essere degli animali selvatici, e di ristabilire così, sia pur temporaneamente, la situazione che esisteva in illo tempore, nei tempi mitici, quando la frattura tra l’uomo e il mondo animale non si era ancora compiuta.

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