Cultura

Le acrobazie di un avatar

Le acrobazie di un avatarSelf-hybridations, Masques de l’Opéra de Pékin, 2014

Mostre Orlan, la performer francese dell'arte carnale, è a Roma. Con la sua personale al Macro, a cura di Alessandra Mammì, racconta al pubblico le sue nuove identità digitali e di realtà aumentata

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 25 ottobre 2017

Il corpo delle lettere è importante e le leggi tipografiche non possono tiranneggiare chi non vuole «rientrare nei ranghi». Così ORLAN, performer francese, pioniera di una speciale body-arte che sconfinò nella «carnal art» lambendo il cyborg di Donna Haraway, non accetta la rappresentazione di sé in caratteri minuscoli. «Mi piace cominciare dalle piccole battaglie dimenticate», dice al pubblico numerosissimo che la ascolta quasi assediandola, durante la conferenza presso lo Studio Stefania Miscetti. Un ritorno, vent’anni dopo le sue prime apparizioni, per presentare in powerpoint – oltre alle opere storiche – le sue nuove, caleidoscopiche esperienze di realtà aumentata e videogiochi.

Siamo sempre alle prese con autoritratti e ibridazioni, ma questa volta il punto di partenza è una ORLAN scuoiata, senza pelle (provocatoriamente, «in modo che non si possa installare nessun pregiudizio razzista»), che si aggira in un paesaggio di distruzione chiedendo allo spettatore di giocare a ricostruire quel mondo, «rivestendo» anche l’artista di un corpo completo, magari con protesi fantascientifiche. In fondo, resta fedele alla sua vecchia idea: il corpo è un software, un oggetto/soggetto modificabile. Soprattutto, è il materiale privilegiato con cui produrre immagini. Tramite biopsia e coltura delle proprie cellule si può far crescere una scultura, lei l’ha fatto.

LA BELLEZZA IDEALE impossibile da perseguire (assai meno interessante della bruttezza raggiungibilissima), l’imitazione dei capricci del Barocco, non solo nelle estasi delle sante berniniane ma anche nelle deformazioni del volto ricercate in ripetuti interventi chirurgici (dove la sala operatoria diventa un atelier per potersi impiantare le comuni placche per zigomi delocalizzandole sulle tempie), i reliquari di scarti carnali conservati e presentati come fossero lapidi di pensieri nascosti, haiku organici, i pezzi di corpo disseminati al mercato i banchi di carote («senza conservanti né conservatori») hanno oggi lasciato il posto a una ORLAN più ludica, capace di svaporare d’improvviso o d’inverarsi attraverso un’app del cellulare come fa un qualsiasi avatar, nell’acrobatica serie dedicata all’Opera di Pechino. Non c’è nessun tradimento: sempre partendo da sé, dalla misurazione del perimetro della realtà attraverso la propria percezione e il proprio ingombro fisico nello spazio, la performer ridisegna un collage di identità in digitale. Anche le installazioni virtuali, paradossalmente, sono reincarnazioni che riprendono il filo della sua ricerca, intrecciando più trame e media.

 

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Installation photographique interactive, Déshabillage, habillage, rhabillage, libres et changeants, 1977

 

SE IL TEATRO DELLA CRUDELTÀ agito durante le operazioni era un tributo alla memoria di Artaud, le sante, le vergini e le madonne erano già rappresentazioni burlesche, con qualche elemento di psicoanalisi ed esiti grotteschi a conferire spessore ma anche a incupirne gli effetti. «La cultura cristiana tende alla demonizzazione e ci obbliga a scegliere fra il bene e il male. Per me l’uno non esclude l’altro, preferisco una ’e’ che congiunge. La stessa che unisce i concetti di vero e falso. In tutta la mia esistenza ho cercato di  rompere  i muri dei generi».

È QUESTA, infatti, l’artista di Saint’Etienne che ritroviamo al Macro di Roma. Una VideORLAN – Technobody che si dispiega con strumentazioni sofisticate nella mostra a cura di Alessandra Mammì (in collaborazione con Villa Medici e lo Studio Miscetti, visitabile fino al 3 dicembre). Ovunque scorrono i video storici (tra cui la bellissima serie dei Mésurages del ’68), mentre la radicalità degli anni Settanta viene recuperata proprio in quel côté ironico e divertito delle pratiche artistiche di ORLAN, spesso rimosso dalla critica, che è riassunto nel desiderio – rigorosamente condiviso – del gioco. E l’interattività col pubblico viene riproposta in forma di dispositivi da lunapark, come quel Têtes à claques, jeu de massacre del ’77 ricostruito al Macro, in cui il pubblico viene invitato a buttare giù la sagoma-icona-ex voto, colpendola con palline nere. C’è anche Panoplie de la fille bonne à marier: riprodotta a misura umana, la silhouette dell’artista evolve in una bambola da reimmaginare a piacimento, sorta di paper doll che rovescia lo stereotipo dell’intrattenimento per bambine di buona famiglia.

ALLA FINE, IL NOMADISMO identitario di ORLAN finisce per debordare nelle nuove tecnologie, lì dove il corpo è plasmabile all’infinito e la contaminazione non arginabile. Lo aveva già annunciato che non si sarebbe sottoposta a operazioni chirurgiche per tutta la vita. Eppure, la categoria del «grazioso» è bandita anche nel videogame sperimentale che si vede per la prima volta in Italia. D’altronde, spiega ORLAN, «l’arte non ha a che fare con la bellezza ma pone domande fondamentali sul mondo e sull’umanità».

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