«Del terribile il bello non è che il principio». Questo estratto delle Eligie Duinesi di R. M. Rilke era posto in esergo di Death in the Land of Encantos con cui Lav Diaz ottenne nel 2012 la Menzione speciale, dalla giuria della sezione Orizzonti, alla 64ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Un’opera colossale di 9 ore (tanto quanto impiegò il tifone Durian a distruggere il paesaggio filippino) sospesa tra l’incanto e il terrore della forza distruttrice di una natura maestosa.

Nel 2013 un nuovo tornado, Yolanda, ha scatenato tutta la sua potenza sull’arcipelago asiatico, lasciando, dopo il suo passaggio, scenari di distruzione apocalittica, che Diaz ha deciso di tornare a filmare. Il lavoro venuto alla luce, presentato poi l’anno successivo, è Storm Children, Book 1, ritorno al documentario dopo An Investigation on the Night That Won’t Forget, distribuito, col titolo I figli dell’uragano a partire da oggi grazie alla sinergia tra Zoomia e Malastrada decisi a far circuitare il film contemporaneamente in sala (Milano, Roma e Perugia, a cui seguiranno, la settimana successiva Spoleto, Firenze, Parma, Reggio Emilia, Napoli) e in streaming in tutta Europa (tutte le informazioni sui siti zomia.it | malastradafilm.com).

Va detto che il Leone d’Oro è certo una bellissima «coincidenza» ma Zomia, piccola distribuzione indipendente, aveva già deciso da tempo la data di uscita di questo film di Lav Diaz, a dimostrazione che l’indistribuibilità sbandierata come un atto di accusa contro il suo magnifico La donna che partì (appellandosi alla «lunghezza»???) non ha alcun fondamento se si immagina un mercato cinematografico vitale, differenziato, capace di indirizzarsi a più pubblici contemporaneamente.

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La visione de I figli dell’uragano è quindi una opportunità importante, soprattutto per chi ancora non ha avuto avuto occasione di potersi confrontare con uno dei maggiori autori contemporanei, che ha scosso, con la propria urgenza espressiva, capace di declinare la condizione di pochezza produttiva in una risorsa di inediti radicalismi formali – contenti in sé i più diversi regimi di scrittura e di rappresentazione – il panorama cinematografico mondiale.

La cognizione e l’elaborazione, formale, del dolore (quello di una popolazione falcidiata da catastrofi naturali e politiche – il colonialismo spagnolo e americano prima, e la dittatura di Marcos e successori poi ) sono il fulcro del cinema di Lav Diaz.

È il dolore a esigere che venga lasciata una traccia di sé. Solo salvandola dall’oblio del silenzio è possibile dare alla sofferenza un’occasione di riscatto, facendo di questa testimonianza.

Meglio di qualsiasi panegirico sono le parole del regista a raccontare cos’è I figli dell’uragano: «L’impeto per questo lavoro, all’inizio, era l’idea di tempesta nell’animo umano, e non solo nella psiche filippina. Ho iniziato a girare, non preoccupandomi di uno stile o una struttura. Ho alloggiato e visitato nelle città e isole colpite dalle alluvioni. Stavo solo documentando ciò che avveniva, cercavo un filo conduttore, cercavo una storia, o la storia. Quando poi mi sono seduto a controllare il girato, mi sono trovato di fronte centinaia e centinaia di immagini che spaziavano dallo straziante al magnifico, dalla depressione alla speranza, dal terrore all’innocenza. Ho capito che dietro alla distruzione e alla disperazione, c’era anche l’immagine del bambino perduto. Perché sono loro, i bambini, le vittime più grandi».

I figli dell’uragano è un reportage che sa cogliere nel caos post-cataclisma momenti di lirismo improvviso. Siamo messi di fronte a un paesaggio che ha l’aspetto di un day after, di un’apocalisse già compiuta, una landa detritica battuta dalla pioggia, inondata e squassata dall’acqua. Tra le macerie, all’ombra di relitti di navi spiaggiate dalla tempesta, sopravvissuti alla furia atmosferica, i bambini cercano, tra i resti di ciò che è stato, qualcosa; non sappiamo cosa. E nonostante la distruzione attorno riescono a divertirsi. Pochissime parole, semplici e brutali nel raccontare la verità di cui sono testimoni.

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Questo interessa far conoscere a Diaz. Perché se da una parte i nubifragi sono sciagura e alibi per intere generazioni di Filippini lasciati nell’inedia da un governo inesistente, dall’altra ci sono centinaia di bambini che, sopravvissuti alla tragedia, non trovano altri mondi in cui giocare.

Se la dichiarazione, prima riportata, del regista potrebbe far pensare a un registro patetico, basteranno davvero pochi attimi di visione per ricredersi: a dire, a parlare in questo documentario (esattamente così come dovrebbe essere) sono solo le immagini.

In From What Is Before la voce off di Diaz ci dice: «Questa storia è la memoria di un cataclisma. Questa storia è la memoria del mio paese». Il regista conosce il fatalismo della propria cultura (tutto si ripete, dicono i personaggi di A Lullaby to the Sorrowful Mystery; «È un fatto – racconta lo stesso regista: le Filippine sono il territorio più vessato dagli uragani di tutta la Terra. Subiscono dai venti a i ventotto tifoni ogni anno, e parliamo di tifoni davvero potenti»), però in I figli dell’uragano, senza alcuna enfasi retorica, concentra tutto l’impianto filmico attorno ai sussulti di inconsapevole ed eroica vitalità dei bambini.

Del resto ai loro occhi, come scrive Elsa Morante in Il mondo salvato dai ragazzini, «in sostanza e verità tutto questo non è nient’altro che un gioco».