Visioni

Lav Diaz, la mia rock opera per le Filippine

Lav Diaz, la mia rock opera per le Filippine

Intervista Un incontro col regista che nel suo nuovo film, «Season of the Devil», racconta l’era di Marcos. «Fare cinema per me significa affrontare quanto accade nel mio Paese e non si palesa mai. È un modo per continuare a combattere»

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 3 aprile 2018

Lui lo definisce una «rock opera», potremmo anche chiamarlo un musical senza musica in cui le canzoni cantate a cappella esprimono la natura di ogni personaggio e al tempo stesso la storia di un Paese: emozioni, conflitti, violenza. Gli abusi e le astuzie del potere. Il rapporto tra intellettuali e popolo, la debolezza dell’ignoranza. Paura, superstizioni, opportunismi, indifferenza. La «Stagione del male».
E Season of the Devil è il titolo del nuovo film di Lav Diaz, che intanto è già al lavoro su un altro progetto – un gangster movie. Siamo nelle Filippine del 1979, l’era della dittatura Marcos, potremmo essere oggi con la presidenza di Rodrigo Duterte seguendo la linea di un’oppressione che si ripete uguale nel tempo. Lav Diaz nelle Filippine ci è nato (come Lavrente Indico Diaz) e lì continua a radicare il paesaggio del suo cinema: reale e disseminato di simboli, figure che parlano del passato e del presente, di colonialismo (e post), corruzione, fascismo, massacri quotidiani, populismi. Silenzi e annullamento di consapevolezza. «La barbarie degli anni di Marcos è la stessa che viviamo con Duterte» dice.

 

Dall’elezione nel 2016 del «Vendicatore» – come chiamano il presidente filippino –  sono state uccise almeno settemila persone, un massacro quotidiano di esecuzioni sommarie camuffato da «impegno» prima contro il narcotraffico poi contro il terrorismo. Le sue squadre speciali possono uccidere senza indagini né processo chiunque sia solo sospettato di essere un tossicodipendente o uno spacciatore ma negli elenchi delle vittime ci sono indigeni, attivisti, chi esprime la minima critica all’operato del governo. Anche per questo Season of the Devil è stato girato in Malesia: sarebbe stato troppo rischioso un set nelle Filippine vista la materia del film.

 

Il despota che impera nella «Stagione del Male» si chiama Narciso, è bifronte come Giano, con i suoi squadroni della morte ha deciso di sterminare gli abitanti di un piccolo villaggio, Ginto. Sono contadini disarmati e analfabeti, i paramilitari il cui comandante torturano, uccidono, stuprano, bruciano le case, pian piano la propaganda gli instilla la propria verità, trasforma chi resiste in nemico, utilizza superstizioni e dicerie per metterlo al bando. E così Narciso diviene un eroe mentre chi lo attacca è un assassino, forse uno stregone, una minaccia a cui è semplice addossare la responsabilità delle morti, la «cattiva sorte» che il buon comandante vuole invece sconfiggere.

 

Al villaggio c’è anche Lorena, un medico arrivato dalla città per curare gratuitamente i poveri sfidando le minacce dei paramilitari. Il suo compagno, Hugo, è un poeta e un attivista che mentre lei è via comincia a escludersi dal mondo. I vecchi riti si intrecciano ai nuovi, le minacce uniscono dio e gli spiriti maligni che «infestano» la zona. «La spiritualità è una sfera complessa, riguarda quello che sei, cosa fai, se cucini bene per i tuoi figli, il modo in cui rivolgi i tuoi occhi non a dio ma alla vita. Però l’ignoranza rende tutto più difficile, un povero ha bisogno di certezze, il bene e il male, il paradiso e l’inferno, l’ignoranza permette di crederci. Il cinema per me è dio, è la mia religione ma per chi non ha nulla, per chi è senza speranza, per chi è povero, ha fame, subisce una brutalità costante la religione è la via di emancipazione più diretta e più semplice. Chi la utilizza come strumento di potere lo sa».

 

Nella «La Lav Land» in bianco e nero sono però soprattutto le canzoni non melodiche – scritte da Diaz – che compongono e scandiscono la narrazione, i duetti tra oppressori e oppressi col leit motiv di un «la la la» martellante, ipnotico e spaventoso, di scherno da una parte, quella di chi controlla il potere, e di rassegnazione dolente dall’altra. Dice Diaz: «La ripetizione è la base del fascismo che utilizza l’indottrinamento finché la menzogna diviene vera. È una forma di imposizione, ti bombardano con la stessa propaganda, lo stesso autoritarismo, lo stesso suono, sanno che funziona». Possono tutto gli assassini, sono la voce che scrive la storia.

 

«Mi interessava lavorare con degli archetipi e una rock opera mi è sembrata la dimensione più giusta. Da una parte ci sono le vittime, dall’altra i persecutori e all’interno di questa prospettiva così chiara ho cercato di porre degli interrogativi, cosa è il Male, chi è Narciso, come combatterlo. Perché lo conosciamo bene, è dietro l’angolo, bisogna stare attenti, è il dittatore, il despota, il demagogo. Tutti i dittatori del mondo, da Mussolini a Hitler fino a quelli contemporanei ripetono schemi simili. Questo significa che non ci confrontiamo col passato, non lo esaminiano con la giusta attenzione, non impariamo nulla da quanto ci ha preceduti. E così ci troviamo ancora con figure come quella di Trump».

 

Diaz è cresciuto in una comune, il padre era socialista, quando Marcos era al governo lui era un ragazzo ma i suoi ricordi sono molto chiari. Per esempio la figura di Hugo, arriva da allora, dagli attivisti e intellettuali vittime del regime di Marcos – «Un personaggio è sempre composto da suggestioni diverse, c’è anche un po’ di te stesso perché l’aspetto personale è importante nell’invenzione». Lo ha raccontato in un lungo incontro a Città del Messico, nei giorni del Ficunam, il bel festival ideato da Eva Sangiorgi ora neo direttrice della Viennale, nel quale abbiamo condiviso l’esperienza della giuria.

 

È una  persona speciale Lav Diaz, con la coerenza limpida del sentimento che attraversa il suo cinema nel quale film dopo film continua a interrogare le forme del racconto e la storia e il contemporaneo. «Fare cinema per me significa affrontare quanto accade nel mio Paese e non si palesa mai. Continuare a combattere è quello che faccio come regista, nel mio piccolo è già un risultato anche se non è mai abbastanza. Se si sceglie di essere un filmmaker ci si deve confrontare col mondo. Mi padre era socialista, mi ha chiamato Leone perché era un buon nome per lui. Vivere significa fare delle scelte, non ci sono eroi, esiste l’esperienza umana ed è quello che dobbiamo comprendere passando anche per la sensorialità. Dove abitavamo da piccoli non avevamo la corrente elettrica, c’era molto sporcizia, eravamo arrabbiati coi nostri genitori che avevano fatto quella scelta, solo dopo ho capito che era un modo per imparare a conoscere e a capire l’umanità. È lo stesso processo che seguo per creare le mie storie, i miei personaggi».

 

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Aggiunge: «Nel caso di Season of the Devil ho cercato di lavorare su un’immagine che fosse al tempo stesso realista e concettuale. Ho sempre evitato di aderire a un genere specifico, preferisco muovermi tra uno o l’altro, partire da uno schema per romperlo, che poi è anche l’aspetto più interessante dei ’generi’. Non mi interessava il musical tradizionale con le canzoni che guidano l’andamento di ogni scena. Volevo che invece si pensasse a cosa c’era in ogni inquadratura senza montare e tagliare alla fine di un pezzo musicale».

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