Mario Tronti, l’autonomia perduta della sinistra
Tempi presenti Nell’ultimo libro di Mario Tronti il lessico politico del Novecento è messo alla prova per definire una sinistra non subalterna allo status quo. Da qui la critica dell’autore ai movimenti sociali, ritenuti solo «un’istanza simbolica». Ma così facendo l’obiettivo di una «potenza politica organizzata» rimane una visione
Tempi presenti Nell’ultimo libro di Mario Tronti il lessico politico del Novecento è messo alla prova per definire una sinistra non subalterna allo status quo. Da qui la critica dell’autore ai movimenti sociali, ritenuti solo «un’istanza simbolica». Ma così facendo l’obiettivo di una «potenza politica organizzata» rimane una visione
Voci e visioni. È da questa partizione che converrà partire per intendere lo spirito che anima il breve scritto (breve solo quanto al numero di pagine che lo compongono, non certo ai temi che tocca) che Mario Tronti dedica alla Critica del presente (Ediesse, pp. 152, euro 12). Voci, dunque. Non quelle di un dizionario, di un glossario, di un lessico aggiornato della politica. Che dizionari e lessici definiscono, non problematizzano le definizioni. Qui è invece la dimensione della ricerca a prevalere. Non a partire da un vuoto, o dalla pretesa di assoluto del «nuovo», che ha smesso di avanzare e si è prepotentemente accomodato. Ma muovendo dal lato ignoto, irrisolto, divenuto tale o forse mai del tutto compreso, delle «voci» che hanno segnato la storia e la politica del Novecento: Autonomia, Popolo, Stato, Partito, Lavoro, Crisi. È una tonalità, una Stimmung, quasi nietzschiana a pervadere questo scritto, a conferirgli la forza evocativa e, al tempo stesso, frammentariamente perentoria dell’aforisma. La consapevolezza, più lucidamente severa che rabbiosa, di una sorta di indebolimento patologico dell’epoca in cui viviamo, di una soddisfatta apatia su cui prospera il potere di pochi. Deriva, decadimento. E la necessità di tornare a «filosofare con il martello», senza timore di schiacciarsi le dita. Rompendo il senso comune, l’idea, vuoi compiaciuta, vuoi rassegnata, che non si diano alternative allo stato di cose presente, se non nei termini di modesti aggiustamenti o di un evoluzionismo beatamente e sconsideratamente ottimista. Un pensiero, insomma, che orienti il cambiamento senza subire l’egemonia di ciò che è dato, che compenetri l’agire collettivo conferendogli potenza creativa, solidità e durata.
Autonomia, dunque, è la voce decisiva, quella con cui tutte le altre debbono misurarsi. L’elemento fondativo che non si limita a regolare, ma abbatte e istituisce, distrugge e crea. Non c’è rottura dell’esistente senza scontro con il nomos che lo fonda. Ma «Autonomia» non unisce, divide. Non è semplicemente il punto di vista incondizionato di una parte, ma anche i punti di vista che la attraversano e la lacerano. Che si fronteggiano e si scontrano. È la politica stessa, non una sua prerogativa esclusiva. Non basta rivendicare l’autonomia della politica dai poteri economici che la hanno asservita o sostituita. Autonomia è anche dalla tradizione, dall’influenza di paradigmi logorati, dall’uso paralizzante della storia, da quel concetto di esperienza, oggi in gran voga, che ci sconsiglia dal tentare qualsiasi esperienza ulteriore. Individui e collettività, movimenti e partiti, classi e corporazioni, governanti e governati, stati e istituzioni sovranazionali si fronteggiano in nome della propria «autonomia», aspirano cioè a darsi la propria legge, all’esercizio in proprio della Politica. Dove sta, allora, il confine tra le pretese degli interessi particolari e la politica come autonomia? Sta appunto in quella determinazione a istituire altro, a costruire un diverso paradigma, a gettare le fondamenta di un nuovo assetto che il tempo presente ha escluso perfino dal campo del nominabile.
Gli incerti confini
Ma quale è la mano in grado di impugnare il martello? Una classe dirigente, una élite (una avanguardia?) – risponde Tronti – capace di trasformare il popolo impolitico del populismo nel popolo politico dei lavoratori e orientarne l’azione. I lavoratori dunque. Chi sono costoro? Un arcipelago dagli incerti confini, la piena occupazione tanto integralmente realizzata da includere financo il suo contrario, coscienza e inconsapevolezza, indipendenza e subalternità, competizione e coopeazione, rabbia e ottundimento. È il capitale, in primo luogo quello finanziario che scorre nelle vene dell’intero pianeta, a governare questo puzzle di contrasti, a impugnare saldamente il martello, e non per fare della filosofia. A imporre la prevalenza del «dentro» sul «contro», della rendita sui bisogni e le aspirazioni della collettività umana. Fuori da ogni contratto sociale e dunque da ogni mediazione. Il raggio di azione della mediazione politica si limita oggi a quanto dentro il patto sociale è rimasto, sia pure l’esagerazione simbolica del 99 per cento. È invece indifesa e inefficace nei confronti dei poteri che ne sono usciti verso l’alto, godendo della più piena autonomia. Ma fuori dal contratto sociale vi è solo un crudo rapporto di forze. Non si può mettere allora a tema la politica senza mettere a tema la violenza. Chiedersi di che cosa si tratti, quale sia la forza e il modo di esercitarla che vinca senza annientare chi la mette in campo e le sue ragioni. È una «voce» che manca, anche se tutte le altre (stato, partito, crisi), ne sono attraversate, nei loro geni e nella loro storia. E gran parte dell’umanità la subisce in forme quotidiane ed estreme. Voce roca o addirittura impronunciabile, che Luisa Muraro ha preso in esame non molto tempo fa con un coraggio inconsueto per i tempi che corrono.
I lavoratori e l’élite dunque. Ma come si configura questo rapporto a partire da una condizione disomogenea, stratificata, perfino contraddittoria? Forse il motore delle lotte e la soggettività che le organizza non possono più essere pensati come un gruppo dirigente (che si rivela, più che altro, rissosa estensione della politica personalizzata). Piuttosto come un luogo di elaborazione, un blocco teorico e un tavolo operativo al quale si sovrappongono e si susseguono diversi commensali, portandovi sapere diffuso e molteplice esperienza, all’altezza del tempo presente e a confronto con la vita reale. Autonomia che non germoglia dalla separatezza, dalla professione intesa come corporazione, ma dall’aver appreso a orientarsi tra i paradossi della contemporaneità.
Il cattivo nuovo
Si dice che le rivoluzioni divorino i propri figli, e anche i loro padri. Lo si è visto, sempre. Che se così non fosse non si tratterebbe di rivoluzioni. Tra Rivoluzione e Partito non c’è rapporto lineare, c’è attrito, c’è contraddizione. La fondazione travolge i fondatori, e forse sarà proprio per questo che nessuno intende fondare più nulla. Ma Rivoluzione di tutte le «voci» è la più impronunciabile, in un tempo in cui non vi è tecnologo, pubblicitario o mattatore che non annunci quotidianamente la sua «rivoluzione». Rassegniamoci, non è una faccenda all’ordine del giorno, se non in questa inflazione retorica del termine.
Partito non gode di miglior fama. «Casta» o forse, più precisamente, milizia mercenaria, quella di cui Machiavelli ci invitava a diffidare, pronta a tradire per maggior guadagno e incline a fingere di menar le mani senza farsi troppo male. Ma non è vero che i partiti non rappresentino – scrive Tronti – rappresentano fin troppo, riproducono l’esistente, rispecchiano, non hanno nulla da dire o da proporre, inseguono i vizi e i capricci della cosiddetta società civile. Vero. Eppure c’è un rispecchiamento «contro». Quello che rovesciava l’organizzazione di fabbrica nel partito operaio, l’esercito industriale in esercito rivoluzionario. E oggi? Quali caratteristiche, quali forme dei poteri che ci dominano possono essergli rovesciate contro? Questo è il problema del partito oltre il partito, della «macchina da guerra», quella vera, non quella «gioiosa» della guerra dei bottoni. Il problema di maneggiare la realtà, compreso il «cattivo nuovo» che la pervade. Qualcuno, guardando al capitale finanziario, indica la parte dei debitori, la loro organizzazione contro la rendita (Maurizio Lazzarato), il sacrosanto rifiuto di pagare i costi della crisi, di piegarsi alla potenza del denaro che produce denaro. È un terreno interessante, temuto dai padroni della finanza, ma accidentato, infestato di compromissioni, minacciato da derive nazionaliste.
Oggetto della visione è invece la sinistra. Ci vorrebbe Bernadette per carpirne i segreti. Ha perduto molto. Cultura, radicamento, qualità antropologiche, concezione del mondo. Le ha tentate tutte: strategie mimetiche, «alleggerimenti», lo smart e il cool. Ha preso commiato dal vecchio linguaggio, ma non ne ha creato uno nuovo oltre l’imitazione impacciata di quello del mercato. Si è arenata sulla secca della «responsabilità». Ecco: essere di sinistra è essere responsabili! Verso chi e che cosa? Verso i patti a cui il capitale ci vincola senza esserne vincolato? Verso la Nazione e l’idea di popolo che ne discende? Verso il sistema delle leggi esistenti? Verso le regole della competitività? Poco importa, la «responsabilità» è diventata una qualità senza referenti, una sacralizzazione del limite che lo sottrae alla contingenza e lo proietta verso l’eternità. È la mancanza di alternative come dogma e come identità. Ma sinistra non è solo questo. C’è una storia e un retaggio concettuale che la collocano dalla parte degli oppressi, che oppongono il basso all’alto, un pensiero che svela gli equilibri oligarchici del potere e ricerca gli strumenti per scardinarli. C’è o c’era? Sinistra può ancora significare questa scelta di campo?
L’impasse della ambivalenza
I movimenti dal basso – scrive Tronti – sono la domanda, non la risposta. Idea non realizzata, ma da realizzare, una «istanza simbolica». Non credo sia produttivo porre la questione in questi termini. Né l’una, né l’altra cosa. Nella domanda stessa c’è buona parte della risposta, nell’idea i criteri della sua realizzazione, nelle forme dell’agire un principio di organizzazione, non testimonianza simbolica, ma imposizione di stati di fatto, pratica dell’obiettivo, come si diceva una volta. Certo, i movimenti possono perdere e, da un bel pezzo, continuano a perdere. Ma non è così anche per le forze organizzate della sinistra? Da dovunque partiamo siamo nella stessa impasse. Ma se non altro i movimenti quando perdono la partita lo capiscono ed è solo questa comprensione che permette di ricominciare, di radunare le fila e andare avanti. Se vi è un luogo dove l’autonomia, del pensiero e della pratica, ha ancora cittadinanza, è lo spazio dei movimenti. L’unico nel quale la politica si sforzi di sciogliere le ambivalenze del presente. Non ci riesce? Non basta? Certo che non basta. Ma se continuiamo ad attenerci allo schema delle masse che chiedono, delle élites che ascoltano, raccolgono e traducono in programma, già per il fatto che tutto questo non è accaduto, non accade né promette di accadere, i contorni di una «potenza politica organizzata» resteranno una visione, per la quale, appunto, servirebbe la mediazione di Bernadette.
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