L’automobile nei salotti urbani (parte seconda)
Come prevedibile la vicenda dell’apertura alle zone di pregio dei centri storici italiani alle auto elettriche/ibride sta assumendo contorni farseschi. Ci voglio tornare sopra perché la questione non è banale […]
Come prevedibile la vicenda dell’apertura alle zone di pregio dei centri storici italiani alle auto elettriche/ibride sta assumendo contorni farseschi. Ci voglio tornare sopra perché la questione non è banale […]
Come prevedibile la vicenda dell’apertura alle zone di pregio dei centri storici italiani alle auto elettriche/ibride sta assumendo contorni farseschi. Ci voglio tornare sopra perché la questione non è banale né marginale.
Faccio un breve riassunto. Nella manovra 2019 viene inserito, a firma della senatrice forzista Alessandra Gallone, un piccolo comma all’articolo 1 in cui si obbliga i comuni italiani a lasciar passare le auto di cui sopra nelle zone a traffico limitato previste dal codice della strada all’articolo 9. Tra queste anche le aree pedonali, checché ne dica qualsiasi ministro. La potente e malvagia lobby dei ciclisti urbani italiani se ne accorge e stila un comunicato abbastanza duro – non come l’incudine che avremmo voluto lanciare sui denti agli oscuri suggeritori di questa idea, perché figurarsi se una senatrice la pensava da sola. L’allarme si espande, intervengono a macchia di leopardo alcuni sindaci e assessori, finché direttamente l’Anci rilancia l’altolà ad una norma che vanificherebbe la lunga, faticosa e molto spesso osteggiata lotta alle auto nei centri storici italiani. La prima zona pedonale d’Italia fu inaugurata a Siena nel 1965 dal sindaco Fazio Fabbrini (piazza del Campo, naturalmente): era una prima assoluta e fu così osteggiata che, malgrado in seguito rimanesse vigente, il sindaco fu forzato alle dimissioni dopo appena 13 giorni. Altro che Ignazio Marino.
Torniamo a noi: dopo aver accusato l’allarme ma senza esprimere neanche una parola di scusa o ammissioni di distrazione, se non proprio idiozia, il governo annuncia una marcia indietro via Twitter ma la ciclolobby non si fida e non ci crede, segue con una certa ansia i movimenti peristaltici del corpaccione governativo. Ed è infatti così che ci si avvita tutti in una farsa sempre più fumosa e che peraltro non fa ridere: alla richiesta di cancellazione del cavillo di Troia cominciano i distinguo e le offerte di modifica, ma non eliminazione. Al momento ci sono ben tre proposte di emendamento da inserire nel decreto Semplificazioni ma nessuna di questa dice «scusate, è una cazzata, cancelliamo». In un vorticare di parole e tecnicalità si aggiusta, si lima, si rimanda a tavoli tra comuni, regioni e Stato da istituire, si prospettano non obblighi ma comunque possibilità, si evocano future direttive, direzioni di quel o quel dipartimento ministeriale: una confusione che nasconde la semplice verità, e ovvero che deve ancora nascere quel governo che non faccia l’inchino all’industria automobilistica. Sottolineo per l’ennesima volta che il sistema automotive è il primo contribuente italiano – ficchiamocelo tutti in testa – e nessuno strozza la gallina dalle uova d’oro.
Di fatto quella che sembrava una mano tesa del governo alle decine di associazioni che hanno sollevato il problema è sì tesa ma mostra il solo dito medio. L’automobile deve restare il fulcro dello spostamento in città, in una monomodalità che contrasta con ogni modernità.
A questo dito teso è stato ancora replicato: «Cancellate quella zozzeria», dice in sintesi un nuovo documento, di due pagine e sempre a cura della ciclolobby, che comincia a essere fortemente irritata dal governo delle Zone a Traffico Illimitato, come è stato felicemente definito dal magazine Bikeitalia.it.
Che d’altronde si tratti di una norma suggerita è evidente e l’ipotesi viene rafforzata dalla testimonianza di un ex deputato che in questi primi giorni dell’anno ha raccontato di un’analoga proposta a lui prospettata da non precisati inviati dell’industria nella scorsa legislatura; quella volta furono mandati a ortiche, questa volta invece a quanto pare no.
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