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L’attraversamento di un incubo

L’attraversamento di un incuboPhilippe Lançon

Il libro Philippe Lançon scampato ai terroristi che attaccarono la redazione di «Charlie Hebdo» racconta la sua esperienza in «La traversata» (e/o)

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 21 novembre 2020

Lançon. Non lo associate a quel marchio che produce anche profumo. Qui il profumo è di morte… «I morti si tenevano per mano. Il piede dell’uno toccava la pancia dell’altro, le cui dita sfioravano la faccia del terzo inclinata verso l’anca del quarto…quasi tutti i miei compagni stavano nella posizione dei morti… Allah Akbar!.. ripeteva uno dei due terroristi mentre sparava».

Si tratta della strage nella sede di Charlie Hebdo a Parigi quel fottutissimo 7 gennaio del 2015: dodici morti e undici feriti gravi, tra cui Philippe Lançon, collaboratore del giornale satirico e di Libération, colpito da uno dei due a una mano e alla mandibola destra spappolandola. Quasi un anno di ospedale e quindici interventi di chirurgia maxillo-facciale. Ne porta ancora i segni nascosti dalla barba (in foto), e guardate le sue labbra…Ci metterà tre anni per trovare la forza di descrivere lo scempio e la via crucis nella sua camera asettica alla «Petié Salpêtrière».

Troverà il coraggio di ritrarre la tragedia in un libro: La traversata (uscito in Italia a fine 2019 per le e/o edizioni, pp. 464, euro 19).
Altro che traversata! Due lunghi anni come «naufrago», un incubo defoeiano; odissea ospedaliera vissuta come dimensione dolorosa tra incubo e realtà. Piuttosto telegrafica l’esperienza spasmodica dell’eccidio. Lançon si sofferma più nel «viaggio ricostruttivo della memoria» e a quella del suo volto semidistrutto. Non scrive molto sul terrorismo islamico come se fosse stata una folle causa incidentale. Ma anche della «fortuna»: uno degli attentatori lo aveva creduto morto.

Nella clinica vivrà sospeso in uno spazio-tempo intermedio, tra la vita di prima, cancellata, e di quella che sarebbe dovuta cominciare. In uno spazio limbico con le due ex che «gareggiavano per rendergli più sopportabile la «camera di concentramento» ove vigeva la solitudine.

Fuori i due agenti di turno armati di fucile Beretta: la scorta. Tra compatimento e cattive notizie dei decessi di quelli gravi nel reparto dei morti-viventi. Tra cannule e tubicini era come «vivere nel ventre di una balena» che non apre mai le fauci; senza via di scampo in quel romitorio. Ma fu importante l’umanità della chirurga Chloé, di alcune infermiere e un portantino. Sono quattrocentosessanta le pagine redatte accompagnate da centinaia di aneddoti, Almeno aveva Proust con Alla ricerca del tempo perduto, titolo significante, data la situazione.

Una testimonianza preziosa ma spaventosa, un resoconto lucido e terribile. Il suo libro non è datato, tutt’ora si perpetuano ancora omicidi nel nome di Allah Akbar…

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