L’attore secondo Diderot e Rousseau
Divano La rubrica a cura di Alberto Olivetti
Divano La rubrica a cura di Alberto Olivetti
Denis Diderot (1713-1784) avverte come sia maturata nell’epoca sua l’esigenza di una radicale riforma dell’arte teatrale. L’interesse di Diderot per il teatro risale a quando era scolaro dei padri gesuiti nel collegio Louis-le Grand. La ratio studiorum dei gesuiti riservava grande attenzione alla dimensione conoscitiva che reca agli studi l’exercicio della ‘ragione’ teatrale. Ha scritto in proposito Yvon Belaval trattando del diderotiano Paradoxe sur le comédien: «La sala di spettacolo si affianca dappertutto alla sala di studio. Gli allievi (per la maggior parte figli di famiglie nobili, che bisogna educare alle belle maniere) recitano le parti; e sarebbe molto sorprendente che Diderot non abbia fatto, a Louis-le-Grand, apprendistato d’attore».
Ma tant’è. Alla questione d’una riforma del teatro che nel 1759 muove l’interesse del Jean Jacques Rousseau della Lettre à d’Alembert sur le spectacles, Diderot aveva già allora dedicato ragguardevoli riflessioni in scritti quali gli Entretiens sur le ‘Fils naturel’ (la commedia che Diderot scrive nel 1757) e, nel 1758, il Discours sur la poésie dramatique, quando licenzia Il padre di famiglia (la sua seconda prova di autore drammatico). La Lettre di Rousseau, come si sa, diede avvio ad una polemica nella quale, tra gli altri, intervennero Friedrich Melchior Grimm nella Correspondance littéraire del 15 aprile 1759, Augustin Louis de Ximénès con la Lettre à monsieur Rousseau sur l’effet moral du théâtre, Jean-François Marmontel con l’Apologie du Théâtre.
Diderot e Rousseau nutrono sul teatro – e su l’effetto morale del teatro – opinioni opposte. Entrambi concordano nel denunciare il prevalere, nelle rappresentazioni teatrali dei loro giorni, di temi ed aspetti scontati e futili, siano frivoli o retorici, ma altrettanto, e gli uni e gli altri, intesi a fornire al pubblico quelle facili evasioni e quelle stanche distrazioni che sono indotte tanto da un recitare stucchevole nella ripetizione di maniere stantie, quanto dall’apparire in scena di personaggi banali, chiamati ad intrecciare e sciogliere intrecci o melensi o pomposi. Insomma pressoché nessuna volontà di far del teatro uno strumento di conoscenza che obbliga lo spettatore ad interrogarsi su sé medesimo, sulle convenzioni della società in cui vive e sul senso del suo vivere, il suo soffrire e il suo amare, questa che è la via di rigenerazione del teatro che auspica Diderot.
Al contrario quel teatro di falsificazioni e non di verità, autorizza Rousseau a chiedere l’abolizione degli ‘spettacoli’. Drastica soluzione questa del ginevrino, di elidere una forma d’arte una volta ch’egli ne constatata una sua attuale e diseducativa mediocrità. Del resto, Rousseau stigmatizza crudamente fin la figura dell’attore, quando nella Lettre a d’Alembert scrive: «In che consiste il talento dell’attore? Nell’arte di contraffarsi, di assumere un carattere diverso dal proprio, di sembrare diversi da come si è, di appassionarsi a freddo, di dire ciò che non si pensa con la stessa naturalezza che se lo si pensasse realmente, e di finire col dimenticare il proprio posto a forza di prendere quello di un altro».
Paolo Alatri, al quale si deve un commento perfetto del Paradosso sull’attore e l’elaborazione di un saggio, stilato nel 1989, che ho ora alla mano e del quale mi sono avvalso quale falsariga nella compilazione di questa nota; Alatri, dicevo, non manca di sottolineare che «è singolare che Diderot elegga a criterio di elevazione dell’attore – che in tal modo diventa un vero artista, un creatore- le stesse notazioni sulle sue capacità mimetiche che Rousseau aveva elencate per manifestargli il suo disprezzo.
Ebbene, ribatte Diderot, quest’arte può essere utilizzata per migliorare l’uomo; e l’attore intelligente sarà tanto più apprezzabile quanto più avrà coscienza dei propri compiti, della loro specificità, e non barerà». Secondo Alatri la lezione del Paradoxe rivolta agli attori è: «Osservate la natura, restate aderenti alla realtà; e perciò fate sì che sull’impulso emozionale abbiano la meglio la riflessione critica e l’autocontrollo, che soli possono mettervi all’altezza delle interpretazioni che siete chiamati a dare».
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