Lattes, incarnazioni e ferite di un io smarrito
Figure del Novecento Mario Lattes (1928-2001) fu romanziere, critico, pittore e intellettuale, segnato da inquietudine perenne e dalla tragedia degli ebrei. Tutte le Opere riunite adesso in un rigoroso cofanetto, Olschki Editore
Figure del Novecento Mario Lattes (1928-2001) fu romanziere, critico, pittore e intellettuale, segnato da inquietudine perenne e dalla tragedia degli ebrei. Tutte le Opere riunite adesso in un rigoroso cofanetto, Olschki Editore
Fu assillato da una perenne inquietudine, all’incessante ricerca di forme espressive che registrassero il suo mondo di ombre e fantasmi. I tre tomi in cofanetto che di Mario Lattes raccolgono le Opere (Leo S. Olschki Editore, pp. LIV-1560, € 180,00), costruiti sotto la direzione di Giovanni Barberi Squarotti e Mariarosa Masoero da un folto e accreditato comitato scientifico, promossi dalla Fondazione Bottari Lattes, consentono di ripercorrere per intero le strade battute da un autore dotato di una rigogliosa vena creativa. La presidente Caterina Bottari Lattes ha voluto rendere omaggio al «compagno di vita» attraverso un’ineccepibile edizione critica di testi, noti e inediti: i sei romanzi, a partire da quello d’esordio, La stanza dei giochi (1959), una sessantina di racconti, opere teatrali, poesie, saggi, articoli, appunti, lettere e la voluminosa tesi di laurea su Il Ghetto di Varsavia, data alle stampe postuma nel 2015, ma qui ripristinata secondo la struttura concepita dall’estensore. Per intero ho scritto, ma Mario Lattes (25 ottobre 1923- 28 dicembre 2001) fu anche pittore attivissimo, incisore di spicco, selettivo editore che si dedicò alla gestione della casa fondata a Torino da Simone Lattes nel 1893, slargandone il prediletto campo scolastico. L’orizzonte del suo tormentato cammino fu dominato da non rimarginate ferite individuali e dalle immani tragedie del Novecento. Quella che definisce laicamente «tragedia degli ebrei» fu lo sfondo di una fuga dalle persecuzioni destinata a trasformarsi in un muro che lo rese indocile e ispido anche quando fu un dinamico animatore culturale.
La morte della madre a seguito del parto restò un luttuoso debito, un mai dissolto senso di colpa. E la meticolosa indagine sugli ebrei polacchi lo spinse a scoprire senza ipocrisie le misere connivenze che traversarono pure le pagine più celebrate del secolo breve: «Man mano che mi addentro nella vicenda di Varsavia, mi pare a tratti, col cuore, d’intenderla sempre meno. O di capir sempre più chiaro che non la intendo. I fatti rimangono là, straordinari, oltre il limite dell’esperienza e dei sentimenti». La Resistenza scolpita dalla sua massiccia indagine non condivideva un canone eroico e esemplare. Fu rifiutata dall’editore Einaudi: per Lattes fu una cocente delusione, un «surrealismo editoriale» senza vie alternative. Ebreo non praticante, come il padre Ernesto, Mario coltivava una febbrile tensione mistica: «Come dire – confessa in un racconto del ’60 – a chi aveva assistito la mia infervorata infanzia religiosa che io non avevo più fede?». Gli anni di bambino in una Torino che non esiterà a definire «città assassinata» affiorano di continuo nella sua nevrotica coscienza di sé.
La stanza dei giochi attribuisce all’eteronimo Dino le tappe della sua formazione: l’ingenuo culto per oggetti da antiquariato, il «saper svolgere fiabe mirabolanti», il darsi a «giochi immaginativi, che non comportavano un’azione vera e propria». I personaggi che frequentavano la sue notti provenivano dalla letture «prime e disordinatissime» ed erano ladri, pirati, usurai, protagonisti di non edificanti imprese. Al termine di questa forzata segregazione Lattes si sente paradossalmente sbalzato fuori da un protettivo recinto: «Il meglio era trascorso, irrimediabilmente perduto: come dire che l’intera esistenza era ormai conclusa e quel che ne restava non era se non l’amara coda del veleno».
Nel 1937 era morto il padre. Per sfuggire alle leggi razziali era stato costretto a peregrinare clandestino per le campagne valdesi. Quindi un trasferimento a Roma, dove si era arrangiato facendo l’interprete per conto degli alleati. Nel 1944 aveva conosciuto Franca Blasi, sposata nel ’46. Ma ben presto l’unione degenerò in una convivenza d’inferno. Il ritorno a Torino accese la speranza di approdare a un luogo amato. Si dedica alla pittura, inizia collaborazioni importanti – «La Fiera Letteraria», La Gazzetta del Popolo, «Il Mondo» – e finalmente esce il primo romanzo che riepilogava un periodo frenetico, cupo ma eccitante. A Libero de Libero, sodale tra i più cari, confida già nel 1964 di star lavorando a un lungo racconto. È l’avvio di uno sfortunato testo, L’esaurimento nervoso, che vede la luce solo ora nelle Opere. Si tratta di un viaggio introspettivo, restituito in ritmi diaristici che deliberatamente rinunciano a qualsiasi organicità. La depressione da cui l’autore è assalito si fa urtante prosa: «La mia stessa capacità di pensare, sentire, immaginare non trova unità, andato il mio essere in mille pezzi specchianti ed echeggianti, fra i quali la realtà si divideva, scomponendo e ricomponendo combinazioni di sé distorte e aliene, monconi bizzarramente aggiunti, che finivano col restituire un oggetto infinitamente incongruo, ignoto e terrificante».
L’incontro con Caterina Bottari nel 1970 fu una svolta non solo psicologica. La sposa nel marzo 1981. Grazie soprattutto al sostegno di Italo Calvino appare presso Einaudi Il borghese di ventura (1975), che riprende il tema della guerra snodandosi però come un conte philosophique (Boggione) o applicando, con un occhio a Pirandello, la tecnica del monologo interiore à la Joyce o l’automatismo dello scrivere come viene. Fase questa persuasivamente inscritta nel filone del «realismo magico». L’accostamento a Tommaso Landolfi per affinità di depistanti ellissi e misteriose allusioni non è cervellotico.
Gli eventi della cronaca sprigionano un sentore di allegoria. Verifica palese è L’incendio del Regio, Einaudi (1976), presentato al Premio Strega da Natalia Ginzburg e Lorenzo Mondo. Non la spunta: eppure era uno dei raggiungimenti più emblematici di una carriera sofferta in controcorrente, più attratta da soluzioni tipiche del modernismo europeo che dallo scarno neorealismo nostrale. Tra le incarnazioni del suo smarrito sé risalta quella di Nathan Glazer, in L’amore è niente (1985) che Lattes riteneva (non a torto) tra le sue «cose migliori»: un visionario inetto, sdoppiandosi, affida a un celebre scrittore il compito di concretizzare la vocazione cui rinuncia. Il Castello d’Acqua, sortito postumo nel 2004 in una versione intermedia e ora restaurato a dovere, declina nei termini più pertinenti il trattamento che Lattes riserva alla storia: non morbide nostalgie proustiane, ma il respiro idealizzante e il frammentario coacervo ammirato in Robert Musil. È significativo che l’ultimo fascicolo (n. 5-6, 1960) della sua rivista «Questioni» fosse stato monograficamente dedicato proprio a Musil e ne riproducesse una lettera (1931) nella quale son dettati imperatavi principî: «Non costruire sinteticamente, ma frantumare il tempo attraverso il personaggio». Il castello è architettura-simbolo che esaltava l’entusiasmo positivistico per la scienza d’inizio secolo. Le vicende della borghese famiglia ebraica di Torino si chiudono in un babelico condominio avvolto nella nebbia notturna della post-modernità .
I racconti fungevano sovente da sperimentazione e parecchi sono confluiti nei romanzi. Contribuiscono così a farci entrare in «un cantiere – scrive Barberi Squarotti nella sua illuminante introduzione – che non si è mai chiuso». Taluni esibiscono una spigolosa perfezione. Ad esempio Nella terra (1963): Lattes si descrive da morto, estremizzando il suo funereo insistere sul disfarsi dei corpi, sul tramonto di ogni progetto. «È naturale, penso, che – sepolto quaggiù, in questa infinita terra, in mezzo a tutti questi morti, e sassi, e radici, e insetti, e chissà quali altre sconosciute presenze – il mio sentimento più forte sia quello di un’attesa apprensiva».
Se il teatro e le poesia sono una produzione marginale, l’attività di pittore di Lattes merita approfondimenti, che ne mettano in primo piano l’assidua coerenza d’impegno. «L’arte di ogni epoca è non figurativa» asserisce perentorio. E nella sua feconda officina attinge alla Secessione mitteleuropea, all’espressionismo delle maschere di James Ensor, agli scheletrici ritratti di Chaïm Soutine, alle nordiche atmosfere di Emil Nolde, per rammentare qualche nome. Non gli sono estranee la satira feroce di Grosz, né le divagazioni bibliche di Chagall o la funambolica geometria di Klee. Tra gli italiani anteponeva il «solido bestemmiatore viareggino» Lorenzo Viani al più umorale e boutadier Mino Maccari. Di un quadro gli piaceva l’obbligo della sintesi, la necessità di definire in simultanea rapidità una visione assoluta. Le professioni di umiltà e di sconfitte erano sommessamente pronunciate con ironico sprezzo: «Un giorno mi metterò a scrivere una novella, o un romanzo, perché non so scrivere né l’una né l’altro. Ma mi fa bene ai nervi» (1989). La rabbia politica che alimentò momenti cruciali esplodeva in profetizzanti invettive: «Reagan o Helsinki o Praga – si legge in un articolino del 4 novembre 1981 –, non sarà l’Europa a decidere priva di unità, di forza propria, di risposte autonome com’è. Essa sarà soltanto il teatro dove forze lontane e gigantesche reciteranno il suo ultimo atto».
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