«Viviamo e moriamo grazie alle storie che ci raccontiamo. La mia storia è sulla fine dell’umanità. Oggi 20 giugno 2086, sono l’unico sulla Terra. Non c’è più nessuno di cui raccontare le storie. Smetterò di farlo, non ho niente da dire, ho soltanto vissuto». Inizia con questo tono da post apocalisse, Last Words di Jonathan Nossiter. A pronunciare queste parole che compongono una sentenza definitiva, è Kal che poi narrerà gli eventi che lo hanno ridotto a essere l’unico individuo vivente.
Film di fantascienza nel quale il regista statunitense, con la complicità in sceneggiatura di Santiago Amigorena (autore del romanzo Mes derniers mots, da cui è tratto questo lungometraggio), immagina un’umanità senza più nulla, che non sa niente, alla quale sono stati sottratti passato e futuro e che, dunque, vive nel più distopico eterno presente. Un’esistenza fine a se stessa, nel senso che i sopravvissuti alla catastrofe ambientale che ha letteralmente divorato e annegato il pianeta non possono fare altro che cercare cibo e strumenti per continuare a essere nel mondo. E poi continuare a essere nel mondo per cercare cibo e strumenti, in un circolo vizioso che infrange l’antico concetto filosofico e politico della socievolezza.
Per certi versi, Last Words è un documentario sulle future rovine, su un disastro che oggi in molti annunciano, senza favorire drastici cambi di regole, e in tanti negano, per perseguire interessi, peraltro di pochi che assistono allo spettacolo delle opinioni confuse con malcelata soddisfazione.

ED È ANCHE un omaggio, se così si può definire, al cinema. Kal, infatti, dopo un lungo peregrinare si ritrova in quella che una volta era Bologna e si imbatte in un altro possibile ultimo uomo, ribattezzato Shakespeare, che si è nascosto nella Cineteca della città (non a caso, in un paradosso temporale, il film di Nossiter è stato presentato al Cinema Ritrovato di Bologna nel 2020, quando inoltre la pandemia uccideva e distanziava moltitudini di persone).
Le pellicole, le pizze, non i file e i link, si trasformano una volta di più nel repertorio di un mondo che sta sparendo. In quello scorrere di immagini, riemergono fantasmi e antichi racconti, pratiche in disuso come il baciarsi e parole dai significati misteriosi. Quell’arte, la più industriale (e dunque complice del disastro), pare essere lo scudo per resistere al declino, per opporsi alla fine di ogni cosa, per invertire la rotta, quanto meno con la memoria e l’immaginazione.
Costruire una cinepresa è lo scopo, è «la chiamata» per chi ancora respira e ha raggiunto Atene, una sorta di Terra promessa: «Se riesci a costruire la cinepresa e a filmarli – nel frattempo sono apparsi altri sopravvissuti – loro esisteranno per sempre, per gli altri, anche dopo che se ne sono andati».

UN’OPERA eccentrica tra fantascienza, documentario e film di montaggio, con la partecipazione di attori non professionisti come il protagonista, Kalipha Touray, un rifugiato gambiano che da reali disastri è fuggito e in altri è precipitato, star internazionali come Nick Nolte, Charlotte Rampling, Alba Rohrwacher e Stellan Skarsgard, e una performer e attrice teatrale come Silvia Calderoni, tutti accorsi per mettere in scena la fine di un vecchio mondo e l’improbabile inizio di uno nuovo. E con l’idea speranzosa (o ingenua) che nella specie umana, discendente dei sapiens, sia insita la possibilità di invertire il cammino, procedendo a ritroso verso un passato aureo che probabilmente non è mai esistito e che, anzi, ci ha condotto distruttivamente fin qui, a bordo di una locomotiva impazzita senza macchinista.