Sofferenza psichica, stanchezza, inibizione, insonnia, ansia, panico, autoboicottaggio, nichilismo estetizzante, violenza inflitta e interiorizzata. Sono i sintomi di una vita capitalista raccontati da Marco Rovelli in Soffro dunque siamo. Il disagio psichico nella società degli individui (Minimum Fax, pp. 258, euro 17). Romanziere, cantautore, artista a tutto tondo e intellettuale politico Rovelli ha scritto inchieste importanti. Lavorare uccide e Servi, libri di riferimento anche per il giornalismo di inchiesta.

ORA RACCONTA LA VITA di chi soffre di sindromi narcisistiche, per le aberrazioni create dalla società della performance, si vergogna della propria povertà sia economica che psico-fisica, ritenendosi inadatto al regime disciplinare dell’eteronormatività, della visibilità a tutti i costi, dell’impotenza sublimata sul lavoro e nella società. Rovelli interloquisce con i principali psicoanalisti, psichiatri e psicologi italiani, scava nei dispositivi sia teorici che politici, fa una storia sociale della instancabile lotta basagliana per riformare l’istituzione psichiatrica a Trieste e parla del Dsm di Caltagirone dove si pratica la prospettiva «gruppoanalitica».

La sua inchiesta mostra come si è formata la «narrazione egemone nella società degli individui» in cui scompare «la natura relazionale della persona umana, la sua natura sociale». Questa idea di «persona» è ridotta «a un individuo de-privato» ed è intesa sempre più nella sua «dimensione organica». Tornano le metafore che paragonano il corpo-mente alla macchina. Il «disagio» è un inceppamento. La cura permette di rimettere in sesto un motore in panne, anche se aggrava la condizione di un pianeta incurabile. La psichiatria diventa una «forma di controllo sociale», l’amministrazione verbosa e tecnica di individui senza società e di una società senza conflitti di classe. Già la conoscenza delle cause di questo processo di soggettivazione può essere l’inizio di una catarsi. Questa è la conoscenza che ha ispirato il titolo ironico del libro, rovesciamento del detto cartesiano Penso dunque sono. Con Soffro dunque siamo Rovelli intende dire che la malattia ha anche un’origine sociale e contiene l’antidoto di una critica politica che non è riducibile allo psicologismo delle analisi ispirate all’individualismo metodologico. In questi casi si crede che basti riscoprire l’origine sociale della volontà per emancipare l’individuo dalla sua alienazione. Ma anche se così fosse, il problema resterebbe tale e quale.

LA SOCIETÀ NEOLIBERALE non ha abolito la «natura relazionale» degli individui, l’ha trasformata attraverso nuovi dispositivi che modificano il rapporto tra il Sé e gli altri, tra gli individui e le famiglie, tra i gruppi e le classi. Rovelli coglie il nesso tra il radicale cambiamento prodotto dalla contro-rivoluzione neoliberale con Thatcher e Reagan agli albori degli anni Ottanta non solo in termini economici, o rispetto al rapporto con lo Stato, ovvero i due modi in cui di solito è inteso il neoliberalismo (considerato erroneamente sinonimo di «neoliberismo»). Egli comprende il significato «sociale» del nuovo «individualismo» che può essere inteso in base a una proporzione: tanto più feroce è il potere dei rapporti di potere, tanto più dolorosa diventa l’alienazione alla quale è soggetto l’individuo. La tensione diventa insopportabile perché induce a condurre una vita parossistica e implosiva perdipiù presentata come la normalità del vivere. E invece non c’è nulla di «normale» in una vita spinta dalla necessità di identificarsi con ciò che ci sfrutta e di trovare l’umanità in ciò che nega la libertà promessa, cioè il capitale.

ROVELLI RACCONTA il dramma contemporaneo del «capitalista umano», ovvero il tragico rovesciamento della forza lavoro nel suo contrario. Questa forma di vita associa la liberazione dal lavoro all’aumento esponenziale dell’(auto)sfruttamento. Le conseguenze dello strazio permanente che vediamo in noi, e attorno a noi, è stato definito eufemisticamente «disagio». Un’espressione fuorviante che riduce un problema politico a uno individuale e lo caratterizza in termini di una causa senza soggetto, di una sofferenza psichica elevata a legge universale, al mancato riconoscimento simbolico o alla perdita di uno status. Si tratta invece di una frattura profondissima nella storia della società capitalistica e del suo rapporto con il mondo che si è ricomposta in una forma di vita generale fondata su una contraddizione in termini, quella contenuta nel «capitale umano», concetto ridotto a uno scioglilingua nello stupidario quotidiano.

Il libro termina con un’indicazione importante: esiste la possibilità di fare un lavoro politico sui e dei soggetti. Parla di una «liberazione collettiva». Marxianamente, potremmo definirla come la liberazione della forza lavoro intesa come facoltà di creare tutti i valori del mondo senza essere ridotta a capacità di lavoro. O spinozianamente come beatitudine che permette di concepire moltissime cose e realizzarne altrettante mentre la gioia dei molti potenzia quella dei singoli. È un’indicazione etico-politica per rompere la macchina di assoggettamento chiamata «capitale umano». Questo libro è uno strumento. Usiamolo.