Europa

L’ascesa del Fronte nazionale e l’alternativa impensabile

Intervista al sociologo Eric Fassin «Dall’economia all’immigrazione, i socialisti francesi inseguono i partiti populisti. Questo significa che non c’è più scelta tra due opzioni diverse».

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 6 giugno 2014

Le europee hanno causato un terremoto politico in Francia, con il Fronte nazionale primo partito e la sinistra ai minimi. Per il sociologo Eric Fassin, che in «Démocratie précaire. Chronique de la déraison d’Etat» (La Découverte, 2012) o «Gauche, l’avenir d’une désillusion» (Textuel, 2014) si è interrogato sull’evoluzione della rappresentazione politica, questo risultato «era stato ampiamente anticipato, era inscritto nella logica delle cose».

Come si è preparata in Francia questa situazione politica?

Negli anni della presidenza di Sarkozy abbiamo visto la destrutturazione della destra, che si è messa ad imitare il Fronte nazionale e alla fine, come ha sempre detto Jean-Marie Le Pen, viene «preferito l’originale alla copia». Ma questo movimento è stato raddoppiato dal Partito socialista, che imita ormai la destra su molti temi: l’economia, l’immigrazione, i Rom ecc. Questo significa che non c’è più alternativa, non c’è più scelta tra due opzioni diverse. In questo modo si minano i fondamenti stessi della democrazia. Il voto allora sceglie il Fronte nazionale o l’astensione, che è un’altra forma di protesta.

Ma come mai il Front de Gauche o i Verdi non sono riusciti ad incarnare un’alternativa?

Si poteva sperare. Ma non è stato così, perché ormai tutti parlano il linguaggio della destra. I Verdi pagano il prezzo di essere appartenuti alla maggioranza presidenziale, ma anche il Front de gauche, che è fuori da questa maggioranza, non è riuscito a farsi ascoltare. Il Ps dice, come l’Ump, che la realtà economica è di destra. Il Ps, assieme all’Ump e al Fronte nazionale, dice che il popolo è di destra. È una doppia logica che rende molto difficile alla sinistra radicale far passare l’idea che un’altra concezione della realtà e del popolo, sia possibile.

La causa non è quindi solo la crisi economica?

Non c’è un determinismo economico. Non in tutti i paesi c’è stata questa risposta, per esempio in Grecia. In Francia, sul voto pesa la responsabilità delle élites politiche che hanno reso impensabile l’alternativa. Hollande ha portato a termine l’evoluzione del Ps in corso dagli anni ’80 e cioè che il realismo significava allinearsi alla realtà economica come è presentata dalla destra e che bisognava far piacere al popolo considerato di destra, andando incontro agli istinti razzisti, securitari ecc. Ci sono state rinunce successive, che continuano: rinuncia alla Pma (procreazione medicalmente assistita per le coppie omosessuali), rinuncia al diritto di voto alle elezioni locali per i residenti non comunitari, sospensione di diritti del lavoro, per fare qualche esempio. Non si tratta nemmeno di demagogia, ma di una strategia suicida in corso da anni.

C’è stata progressivamente una sostituzione delle differenze etniche alle differenze di classe?

La logica di classe è stata sostituita da una logica razzista. La sinistra si è allineata su una visione di destra del popolo. Anche se non ce n’era bisogno, visto che le classi popolari in Francia sono miste, non ci sono solo bianchi e ci sono molti matrimoni misti. Si possono non negare le differenze senza però definire il popolo in termini razziali.

C’è una via d’uscita secondo lei?

Prima di tutto la sinistra deve cercare di imporre il proprio vocabolario. Sull’immigrazione, per esempio, la destra e l’estrema destra dicono che è un problema. La sinistra dovrebbe dire che ci sono dei problemi, ma che non è un problema in sé. Il riconoscimento del diritto di voto agli stranieri sarebbe anche una questione di interesse politico, perché se ci fosse questo diritto, nelle grandi città i partiti non potrebbero più usare la carta della xenofobia, perché rischierebbero di perdere voti e quindi sarebbero obbligati a moderare i toni. Questo diritto cambierebbe i termini del dibattito. Sul matrimonio per tutti la sinistra ha mantenuto solo fino ad un certo punto il proprio linguaggio. Poi anche qui ha ceduto alla destra, che in seguito ai vari passi indietro di Hollande è di nuovo riuscita ad imporre il proprio vocabolario. Bisognerebbe non avere più una visione del popolo basata sull’opposizione tra questione sociale e questioni di minoranze (razziali ecc.), ma cercare di mettere assieme i due termini. Esiste poi, come ha sottolineato Michel Feher, una «politica non governativa», presente anche quando non ci sono le elezioni. Come farsi sentire pur essendo una minoranza che agisce? La destra religiosa ci è riuscita negli Usa. Una politica non governativa implica pensare cosa sia un pubblico che si mobilita attorno a una causa. Viviamo in un momento particolare, dove con la politica neo-liberista è caduta la distinzione tra pubblico e privato, lo Stato si è messo al servizio dei mercati, quindi non rappresenta più l’interesse generale. Vuol dire che non ci si può più aspettare tutto dallo stato, che bisogna agire. Il peso dipende anche dalla velocità, dipende dal movimento: la sinistra non pesa molto perché sembra condannata all’inerzia, la mobilitazione non è solo la rivoluzione, ma anche mettere in moto delle leve, per rendere il mondo intellegibile, evitando cosi’ il sentimento di fatalità, di disperazione.

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