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L’articolo che non avrei mai voluto scrivere

L’articolo che non avrei mai voluto scrivereGiancarlo Aresta in via Tomacelli – Marco Cinque

Giancarlo Aresta Da marito, da padre, da nonno, da amico non si può non amarlo. Per la sua onestà intellettuale, per la sua generosità la sua limpidezza, la sua forza

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 12 marzo 2020

Questo è per me il pezzo più difficile da scrivere. 52 anni di vita in comune con una persona speciale. Un amore straordinario.

E voglio ringraziare i tanti che hanno scritto di Giancarlo, a cominciare dai suoi amici del Manifesto, con grande affetto. Cogliendo le particolarità del suo carattere, quel rigore dell’analisi, quella profonda serietà di pensiero e di azione, quella grande disponibilità verso tutti.

Incontrai Giancarlo all’Università di Bari, nel 1966. Io ero matricola e mi colpi la sua, già allora, unicità. Camminava nei corridoi della Facoltà di Lettere, un quadrilatero che circondava le aule, a passo veloce, girando in tondo, più e più volte. Era «La vuelta al ruedo», la passeggiata del torero nell’arena, prima dell’avvio della corrida. E se gli volevi parlare dovevi seguirlo, o rincorrerlo, nel percorso.

Ma io invece mi giravo su me stessa e gli andavo incontro, come ho sempre fatto nel corso della nostra vita.

ERA ALLIEVO prediletto di Vittorio Bodini, lo straordinario ispanista, col quale aveva costruito un’amicizia profonda. E macinava esami con grande disinvoltura, ottenendo ottimi voti. Godeva di un rispetto incredibile da parte dei docenti della Facoltà. Bastava si sedesse per l’esame e già c’era un trenta per lui. E divenne, appena laureato, assistente di Bodini.

Giancarlo vestiva sempre di nero e aveva pochi ma consolidati amici. Questo in tempo di pace.

Poi cominciarono le grandi affollatissime assemblee, perché a Bari il ’68 cominciò l’anno precedente, con una grande assemblea nella Facoltà di Lettere. Cominciò in sordina quell’assemblea, con una fisionomia rivendicativa (gli appelli, gli esami, ecc).
Poi Vitilio Masiello che era accanto a noi gli disse: «Ti prego Giancarlo, intervieni». E ci fu una svolta.

Fu un movimento, quello barese, non solo rivendicativo ma fortemente colto e denso di politica, collegato agli intellettuali più prestigiosi della città – dell’Università, delle case editrici e delle riviste culturali e politiche.

Fu un vivaio di quadri (come si diceva allora). Da Giancarlo appunto, a Francesco Laudadio, Silvia Godelli, Silvia Napolitano e tanti altri.

UN MOVIMENTO che scelse la strada della politica, costruendo quell’unità tra intellettuali e lavoratori che negli anni successivi divenne il nucleo forte del gruppo dirigente dei partiti, in particolare del Partito comunista, dei sindacati, e presenza qualificata nelle amministrazioni, a partire dalla città di Bari e dalla Regione.

Il 3 gennaio del 1968 ci sposammo. Matrimonio spartano, andammo in quattro al Municipio e ci dimenticammo le fedi.

La nostra casa in quegli anni era una succursale di partito. Avevamo in casa un ciclostile, che io sapevo riparare e pulire.

Nel ’70 nacque Francesca, ma la nostra casa continuava ad essere una sede politica. Un giorno, tornando a casa, trovai una riunione della cellula del Liceo Flacco, indetta dalle compagne che dovevano farci da baby sitter. Francesca, sorridente e contenta, era in una nuvola di fumo.

Nel ’73 nacque Marinella, che ereditò gli occhi azzurri della bellissima nonna Maria.

Figlie amatissime, con le quali ha sempre avuto un rapporto speciale, di padre tenerissimo e di guida morale e intellettuale.

Negli anni successivi Giancarlo, già divenuto assistente ordinario, apprezzatissimo da studenti e studentesse, che seguiva e aiutava in ogni modo, si mise in congedo dall’Università e divenne direttore editoriale della casa editrice De Donato. Nello sgomento di Francesca che mi chiedeva: «Perché papà va sempre in questa casa di Trice?».

FURONO ANNI di lavoro, come sempre d’altra parte, intenso, appassionato, costruttivo. E fu proprio Giancarlo a voler pubblicare il bellissimo testo «La scuola della riforma», curato da Beppe Chiarante, anche perché sembrava imminente l’approvazione in Parlamento della tanto attesa riforma della secondaria superiore. Che non arrivò mai più.

Appena concluso il lavoro alla De Donato nel 1981, Giancarlo si dimise dall’Università, nello stupore generale, e andò a lavorare alla Federazione del Partito comunista di Bari, diventando, se non sbaglio, segretario cittadino.

Il lavoro di partito era quello che voleva fare, che ha amato più di tutti gli altri.

Ricordo che in quegli anni Francesca voleva frequentare un anno di scuola negli Stati Uniti, aveva superato i test e bisognava riempire la scheda informativa.

Alla casella «lavoro del padre» io dissi subito, scriviamo impiegato. E lui: «Non mi rinnegate, scrivete la verità, funzionario del Partito Comunista». Noi scrivemmo così. E Francesca non partì più. Ma noi, le sue donne, lo amavamo così come era.

GIANCARLO NON era solo il segretario, era l’amico, il confidente, la guida per l’attività politica e direi per la vita stessa dei compagni. Un lavoro senza confini di tempo e di luoghi. Che, insomma, non poteva essere un mestiere.

Per questo suo grande rigore, che non riusciva però a nascondere la sua grande umanità, era apprezzato e stimato anche dai suoi avversari politici.

Con la svolta della Bolognina portò avanti una dura e appassionata battaglia nel Partito, accanto a Pietro Ingrao, che lo amava molto, e ne era ricambiato. Accanto ad Aldo Tortorella, Marco Fumagalli, Maria Luisa Boccia e tanti altri.

Ma la «seconda mozione» fu sconfitta e Giancarlo si dimise da quel partito che non era più il suo e nel quale non poteva e non voleva restare.

Anche se fu contento della mia candidatura al Parlamento nel 2001, proprio in quel partito. Così come fu contento del mio incarico di Assessore in Puglia.

Qualche anno dopo cominciò il suo lavoro al Manifesto. In pochissimo tempo diventò uno dei maggiori esperti nel campo dell’editoria, stimato da tanti, amici e nemici.

Un lavoro matto e disperatissimo, soprattutto insieme a Valentino e a Matteo, ma assai proficuo, come testimoniano gli interventi di questi giorni sul Manifesto.

NEGLI ULTIMI ANNI è poi cominciato, a pieno ritmo, il suo meraviglioso mestiere di nonno. Li ha amati tutti e tre, i nostri carissimi nipotini, di un amore straordinario.

Ha scelto per loro libri e giocattoli. Ha passato ore a leggere per Iacopo, bambino coltissimo e profondo, a giocare con la bellissima Eva, che accoglie nonnino sempre con grande entusiasmo, e a divertirsi col piccolo e fortissimo Lorenzo, che ci vorrebbe sempre a Milano.

E con loro abbiamo vissuto vacanze indimenticabili. E lo hanno amato e lo amano tutti, incondizionatamente.

Perché Giancarlo, da marito, da padre, da nonno, da amico non si può non amare. Per la sua onestà intellettuale, per la sua generosità, la sua limpidezza, la sua forza.

E lo saluteremo pubblicamente, come merita, nella sede de Il Manifesto quando sarà possibile, Coronavirus permettendo.

Ci mancherà Giancarlo, il suo rigore e la sua dolcezza. La sua profonda cultura, mai esibita.

Ciao «picaro de mi alma»!

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