L’arte urbana va al castello
Interviste Un incontro con Zakaria Jemai, detto Zak, origini tunisine e un lungo presente italiano, che ha fatto di un vecchio palazzo una enclave della street art europea in mezzo all’edilizia industriale
Interviste Un incontro con Zakaria Jemai, detto Zak, origini tunisine e un lungo presente italiano, che ha fatto di un vecchio palazzo una enclave della street art europea in mezzo all’edilizia industriale
C’è una campana all’ingresso di un grande salone, una campana che il padrone di casa suona sempre prima di varcare la soglia. Poi, uno zerbino. Una volta dentro si è inondati dall’arte. Non si tratta di un museo convenzionale, ma di una particolare galleria di piccoli capolavori postmoderni: è il castello di Zakula, una ex fabbrica alle porte di Milano, da sette anni abitata dallo «Zio», come si fa chiamare dai suoi discepoli.
Zakaria Jemai – questo il suo vero nome – origini tunisine e un lungo presente italiano, ha fatto di un vecchio palazzo, a ridosso dello svincolo autostradale, una enclave della street art europea in mezzo all’edilizia industriale. Un luogo sconosciuto perfino a molti milanesi. Non ci sono porte, solo pareti di cemento il cui grigiore non è che un ricordo sfumato tra le pennellate fitte dei disegni.
Zak – un altro dei suoi soprannomi – ospita disegnatori esperti, ragazzi alle prime bombolette e adolescenti problematici accompagnati dai genitori. Perfino rapper che girano i videoclip delle proprie canzoni, come Ghali: «Il castello è una casa che accoglie – è la sua dichiarazione fiera dopo aver analizzato con circospezione la coppia di giornalisti che gli si para davanti – Gli ospiti, però, avvisano prima di arrivare. Ma per voi farò un’eccezione. Venite, vi mostro i lavori dei ragazzi».
Rotto il muro della reciproca diffidenza, il dedalo di corridoi e stanze comunicanti, fino a quel momento solo intravisti solo, si offre ai nostri occhi mentre seguiamo un inconsueto Virgilio. Disegni tribali, volti di donna, Giudizi Universali in salsa undergroung. Poi, in una stanza dal soffitto umido e gocciolante, c’è quella che Zak ha definito la sua carta d’identità: un disegno a tutta parete raffigurante un uomo seduto in bilico su una improbabile pila di oggetti. C’è una piramide capovolta, a simboleggiare i brutti tiri che gli ha giocato il destino; una fava secca, allegoria del castello; un barattolo di inchiostro, strumento dell’arte e un libro, la base solida su cui ha costruito la sua esistenza. «Questo dipinto racconta chi sono – dice – una persona che è rimasta in sella alla vita, nonostante tutto».
Il salone centrale, lontano dall’inospitalità delle altre sale, ha sedie e poltrone in ogni angolo. Libri vissuti impilati su tavoli sghembi. Fiori piantati nel cemento. Ciascun elemento sembra essere nato lì, in quel posto e in quel momento. Nulla sembra aver avuto un passato o un futuro: sta tutta nel qui ed ora la filosofia del luogo.
L’edificio deve essere abbattuto, dicono le ordinanze del Tribunale di Milano: «Non mi spaventa la possibilità che mi mandino via. Io troverò un altro posto in cui stare – dice sereno – Quanto ai lavori dei ragazzi, l’arte è così: effimera. Proprio per questo è bella».
Nel 2017, infatti, la rivista svizzera di lingua tedesca Blick ha posizionato il castello al secondo posto nella classifica mondiale dei luoghi simbolo dell’arte urbana, dietro solo al capannone dei Giochi Olimpici di Rio 2016, considerato l’esempio di street art più grande del pianeta. Oltre a ospitare giovani artisti dell’hinterland milanese, il castello accoglie writer che arrivano dal resto d’Italia e qualcuno anche da altri paesi europei. Essere ammessi in questo tempio non è poi così difficile: è sufficiente contattare il padrone di casa su Facebook e il gioco è fatto.
I due piani dell’edificio – di cui uno destinato alla «Ignorant Art» (come Zak ha soprannominato i disegni di minor valore) – e le numerose stanze traboccanti di colori non bastano per comprendere cos’è davvero il castello.
Bisogna addentrarsi nel boudoir di Zak per respirare aria di casa. Il salotto è in penombra e il tepore che arriva dal camino, dopo tutta l’umidità del palazzo, è un sollievo. È forte l’odore dell’incenso acceso, della legna che brucia e del caffè che l’ospite ha messo sul fuoco. «Li vedete quelli – dice indicando una libreria addossata al muro – sono i miei fumetti (tutti Dylan Dog, ndr) e i miei cd (l’intera discografia di De André, ndr). Così trascorro il tempo quando non ci sono i ragazzi a disegnare. Oppure scrivo i miei pensieri».
D’un tratto, quando inizia a raccontare dei sacrifici fatti per rendere questo luogo accogliente per sé e i suoi ospiti, la figura dell’artista spiantato si sovrappone a quella dell’uomo pragmatico: «Ho installato dei pannelli solari, acquistati grazie a piccole donazioni di amici e visitatori, con cui soddisfo il mio fabbisogno di energia elettrica, poi ho approntato un rudimentale ma efficace sistema di raccolta dell’acqua piovana, bollita per lavare i piatti, e ho realizzato il pavimento in parquet per la camera da letto con scarti di legno. Ma la parte più difficile è stata liberare le stanze dai calcinacci. Ho lavorato per mesi». Prima che Zak andasse ad abitarci, infatti, il castello non era che uno scheletro industriale dismesso in cui si erano accumulati scarti di lavorazione edilizia e spazzatura comune.
In un’altra ala del castello c’è la discoteca, una sala dotata di un’enorme finestra senza vetrate e numerosi divanetti bassi che nelle serate calde ospita qualche ora di musica ed esibizioni dal vivo: «Mi spiace, l’apertura estiva ci sarà tra qualche mese», scherza, mentre con due falcate ha già raggiunto la stanza successiva. Sorride per l’acqua che gocciola tra le crepe delle mura, ma s’indigna ripensando agli avventori del palazzo che vanno via senza buttare la propria spazzatura, come recita il decalogo del castello.
Poi, mentre cerca di arrotolare una sigaretta, dichiara: «Mia figlia dice che dovrei smettere: è molto rigorosa essendo un’atleta ed è attenta alla mia dieta, essendo una nutrizionista: mi ha già proibito la carne rossa e il vino. A qualche sigaretta, però, non rinuncio».
Gli occhi gli si irradiano di luce e per i dieci minuti successivi racconta di sua figlia e dei suoi successi sportivi nel lancio del giavellotto con l’Esercito Italiano alle Olimpiadi. Poi, continua: «Quando i miei figli vengono a trovarmi (di figli ne ha due, ndr) non vorrei che restassero qui a dormire: d’estate fa troppo caldo e d’inverno si gela. Io sono abituato. Ma a quanto pare, loro lo trovano divertente». Ogni tanto vengono a fargli visita insieme alla loro madre, la sua ex moglie, con cui afferma di essere rimasto in ottimi rapporti. Poi, vanno via e Zak resta nuovamente solo ad abitare il palazzo. «La sera, quando vado a letto, ho bisogno di pensare. Contrariamente al resto dell’edificio, le mura della mia stanza sono candide, senza dipinti: sono la mia pagina bianca su cui scrivere un nuovo progetto per l’indomani». Perché al futuro Zak ci pensa eccome: racconta di un libro, che sarà presto dato alle stampe, in cui sono raccolti scatti del castello corredati dai suoi scritti; parla dell’acquisto di un generatore elettrico, che gli permetterà di vivere meglio. E di un videoclip girato col suo amico Ghali, che presto spopolerà sul web. Scherza sulle tante donne che ha avuto e che gli sono sempre piaciute. Poi, chiosa: «Ora è il caso di smettere. I miei anni d’oro li ho già vissuti».
Incredibilmente sono trascorse ore da quando abbiamo varcato la soglia. Il traffico della vicina autostrada non è mai cessato. Zak ci lascia andare con la promessa che torneremo presto a trovarlo per mangiare insieme: come potremmo rifiutare l’invito a pranzo di un ex cuoco? Mentre ci guarda scomparire nella tromba delle scale, ci regala l’ultima perla: «E mi raccomando, non scrivete che sono un barbone che indossa stracci. Qui al castello io sono sempre stato un uomo felice!»
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