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L’arte sparita del cartellone rock

L’arte sparita del cartellone rockIl primo cartellone rock realizzato per promuovere nel 1967 il debutto dei Doors

Storie/Fino alla metà degli anni ’80 era la forma pubblicitaria privilegiata dai musicisti Erano tutti dipinti a mano e realizzati da nutrite «squadre di esperti». Nel 1967 i Doors furono i primi a usufruirne negli Usa. Spediti in pensione da Mtv restano oggetti pop irripetibili

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 7 febbraio 2015

La scritta, in giallo, era perentoria: «The Doors break on through with an electrifying album», I Doors sfondano dall’altra parte con un album elettrizzante. Un annuncio che fa storia perché compare sul primo cartellone pubblicitario stradale del rock. L’idea è di Jack Holzman, boss della Elektra, piccola etichetta indipendente di Manhattan. Il manager capisce che Los Angeles comincia a muoversi in una direzione marcatamente rock e nel 1964 apre un ufficio a Los Angeles; fino a quel momento Holzman ha scovato artisti folk e adesso è venuto il momento di cambiare. Non solo: ha per le mani i Doors e deve capire come lanciarli. Ha anche notato che le case discografiche non pubblicizzano i propri prodotti, a differenza di tv e radio che utilizzano spot e trailer cinematografici.

Nel 1964 ha l’intuizione che cambierà la vita di molti artisti. Mentre siede nel suo ufficio di Hollywood, guarda fuori dalla finestra e si rende conto che i billboard, i cartelloni, pubblicizzano tutto fuorché i dischi e gli artisti che li realizzano. Non bello se si pensa che Los Angeles è tutta incardinata dentro una cultura automobilistica e pubblicitaria. Lì ci si sposta perlopiù in auto e anche l’occhio è sempre in movimento. Holzman sa anche che si tratta di un medium inesplorato e che se proprio deve rischiare deve farlo con un disco che merita. Il 4 gennaio 1967 esce negli Usa The Doors, debutto della band di Jim Morrison con dentro pezzi come Break on Through (to the Other Side), Light My Fire (singolo al primo posto negli Stati Uniti nel giugno 1967), Soul Kitchen, The End ecc. Per il manager, The Doors è il disco perfetto. Lo anima anche un secondo intento: pubblicizzarlo con un cartellone avrebbe dimostrato alle altre etichette, piccole e grandi, che all’Elektra gli artisti godevano di grande considerazione. E allora eccolo, una mattina di gennaio del 1967. Un cartellone enorme, nuovo, impensabile fino a quel momento. Holzman lo fece piazzare vicino all’hotel Chateau Marmont su Sunset Strip. Era dipinto a mano come tutti i cartelloni pubblicitari che sarebbero seguiti, aveva colori scuri, rigorosi e sopra le facce dei quattro Doors. I passanti non ci fecero troppo caso tanto erano abituati a pubblicità di macchine, sigarette, alcolici, cereali; per molti era l’ennesimo arredo urbano tipico della cultura pop stradale Usa. In realtà quello era comunque l’inizio di tutto. Holzman si era accordato con Foster and Kleiser, l’azienda più nota della West Coast in ambito di cartellonistica (l’altra era la Pacific Outdoor Adveritising). Nel 1967 l’affitto di un cartellone – inclusa realizzazione e installazione – era di 1200 dollari al mese. L’accordo con F&K sarebbe durato un anno, con la spesa detratta dagli incassi delle vendite. Poca cosa per l’Elektra che l’avrebbe fatta passare come spesa promozionale mettendola in conto agli artisti. Come racconta Holzman in Rock’n’roll Billboards of the Sunset Strip (Angel City Press, 160 pp, 2012), fondamentale photobook di Robert Landau sui cartelloni musicali a Los Angeles, «i dj radiofonici facevano su e giù per il Sunset per andare al lavoro, volevo che ascoltassero i Doors; non facevamo singoli e quindi quel cartellone era come un 45 giri, una specie di biglietto da visita anche se molto grande. Non mi aspettavo che qualcuno vedesse il billboard e si andasse a comprare il disco, speravo che si incuriosisse».

Anche i quattro Doors erano elettrizzati; di mattina presto visitarono gli uffici della Foster and Kleiser a Washington Boulevard aggirandosi nello spiazzale in cui gli operai – come di consueto – avevano montato i pannelli di legno per mostrarli ai clienti. Un fotografo della F&K e Willian S. Harvey, art director della Elektra, immortalarono la scena. Prosegue Holzman: «La band era soddisfatta, la riteneva una mossa scaltra, e poi a Jim stuzzicava l’idea di sembrare uno spettro che incombeva sulla citta». Più tardi, quella stessa mattina, i pannelli furono nuovamente smontati, caricati su un camion e rimontati accanto allo Chateau Marmont, l’hotel dove nell’82 John Belushi sarebbe morto di overdose. Anche i Doors sopraggiunsero e insieme all’amico fotografo Bobby Klein salirono sulle impalcature dinanzi al cartellone; sempre più in alto fino a sedersi sul bordo del billboard. Holzman la sapeva lunga, sapeva che i fan dei Doors erano la generazione cresciuta con la televisione in casa, che un buon cartellone poteva stupirli perché «non è ripetitivo e a differenza della tv non è irruente, è un’informazione passiva e tuttavia dà la sensazione che qualcosa di nuovo che sta avvenendo; molto semplice, non violento». E poi ricordava le copertine dei dischi e i poster e questo era un grande valore aggiunto. Restò sul Sunset per un mese e se ne parlò molto, alla Elektra ci provarono anche con Tim Buckley, Love e altri. «Tutti volevano stare sul cartellone – ricorda Holzman -. Io gli spiegavo che l’investimento dipendeva dalla qualità del disco, del prodotto. Continuai con i billboard fino a quando lasciai l’Elektra nel 1971 e penso che l’etichetta andò avanti a tutto il 73; a quel punto tutti facevano cartelloni, la sorpresa dell’inizio era svanita, fu nostra solo per i primi sei mesi». Un cartellone non era roba da poco. Erano enormi, misuravano 14m x 4m, e coinvolgevano una quantità enorme di persone: art director, grafici, fotografi, discografici, falegnami, operai, un circo di arti e mestieri che ancora oggi con modalità e materiali diversi trionfa nelle città. Ma è tra il 1967 e l’82 che Los Angeles pullula di cartelloni stradali dedicati alla musica, spuntavano da dietro hotel, ristoranti, stazioni di servizio, oppure rimanevano stretti tra sedi di uffici e banche; oggi le tecnologie digitali consentono di coprire interi palazzi simulando nuove facciate, ieri Marvin Gaye, Rolling Stones, Beatles e Smokey Robinson dominavano soli, unici e irripetibili. E Hollywood era il campo di battaglia delle etichette, che di giorno intrattenevano affari e scovavano talenti e di notte affollavano i club. I cartelloni erano un arredo urbano imperdibile: li chiamavano «spectaculars» tanto spiccavano rispetto alle pubblicità con immagini stampate, quelle delle normali affissioni. Il fatto che fossero dipinti a mano dava al colore grande vitalità e presenza, ovviamente dipendeva dall’abilità di chi dipingeva, per questo le aziende si contendevano i migliori «pittori da cartellone» in circolazione. La natura delicatamente imperfetta della mano umana rendeva il billboard ancora più attraente e soprattutto uno diverso dall’altro. L’artista di riferimento della Foster and Kleiser era Mario Rueda, il più ricercato, quello a cui i Beatles si erano rivolti per il cartellone di Abbey Road, e così Randy Newman, Neil Sedaka e cento altri. Il segreto erano quelle pennellate larghe e quei colori vividi che catturavano l’occhio e spiccavano da lontano. In genere Rueda e altri colleghi ci mettevano tra i cinque e i dieci giorni per completare l’opera che veniva poi sottoposta alla visione e approvazione del cliente. In seguito i pannelli venivano smontati e inviati a destinazione; il pittore seguiva la squadra per i ritocchi finali da eseguire in loco. Iperrealisti prima degli iperrealisti, gli artisti riproducevano foto promozionali, copertine, ambientazioni. Con l’aggiunta di compensato opportunamente ritagliato e modellato si ottenevano incredibili effetti in 3D: chitarre che sbucavano dal nulla, capelli che superavano il bordo del cartellone e altro. Era già stato sperimentato con successo negli anni Cinquanta e resta mitica una pubblicità della Pepsi con il tappo che sembra balzare in primo piano. In genere i billboard restavano in piedi un mese e poi venivano smontati, sostituiti con quelli di altri artisti. Montaggi e smontaggi avvenivano nelle prime luci del giorno, come se nessuno dovesse accorgersene, quasi fossero piovuti dal cielo. In alcuni casi veniva proposta una «sequential campaign» ovverosia cartelloni che rimandavano uno all’altro creando una sequenza di messaggi e informazioni. Tra le campagne sequenziali più note quella per Foreigner, il disco del ’72 di Cat Stevens che in un primo cartellone disvelava l’immagine di una splendida spiaggia esotica su cui era stata sovraimposta la copertina dell’album e in un successivo billboard evidenziava un uomo accovacciato (assomigliante a Stevens) che la cancellava dando preminenza solo alla spiaggia. D’effetto anche quella per There’s no Place like America Today, il disco del ’75 di Curtis Mayfield con sagome di persone sotto al billboard riposizionate e cambiate in giorni prestabiliti in modo da dare l’effetto che ci fosse sempre gente in movimento dinanzi al cartellone. I cartellonisti erano perlopiù anonimi, i loro referenti erano gli art director delle etichette, tra i più noti John Kosh (della Apple, l’ideatore della copertina di Abbey Road) che seguiva in prima persona la manifattura dei cartelloni. Splendido quello per Out of the Blue, l’album della Electric Light Orchestra del ’77 che prevedeva un’astronava in plexiglas che si illuminava a intermittenza e sbucava fuori dal billboard. È considerato uno dei cartelloni rock più stravaganti e cari (50mila dollari al tempo!) di sempre. Un altro art director importante fu Roland Young al lavoro per la A&M e in precedenza con la Capitol; con quest’ultima casa discografica realizzerà il cartellone di Abbey Road e in particolare caldeggerà l’idea di affiggerlo con McCartney senza testa. Il pannello si era staccato accidentalmente ma Young – sfruttando la leggenda urbana che Paul fosse morto – deciderà di non riattaccargliela. Fondamentale anche Gary Burden che disegnerà copertine per Mamas&Papas, Joni Mitchell, Eagles, Byrds, Jackson Browne ecc. creando lui stesso (e supervisionando) anche i billboard che le avrebbero pubblicizzate. Altro art director di rilievo è John Van Hamersveld. Ha disegnato copdertine dei Kiss, Blondie, Jefferson Airplane, Grateful Dead, Beatles (Magical Mystery Tour) e soprattutto Exile on Main St. (1972) dei Rolling Stones, di sicuro il suo lavoro più iconico, un collage in bianco e nero di foto di freak circensi, un uso del tutto insolito di immagini multiple per raccontare un concetto unico (soggetto, foto e ideazione della copertina erano di Robert Frank). Per i cartelloni l’art director scelse solo alcuni scatti, colorandoli in giallo, verde, blu. I billboard seguivano da vicino eventi ed evoluzione della cultura di massa; non a caso il film di Kubrick, 2001: Odissea nello spazio (1968), avrebbe scatenato nuove fantasie fantascientifiche presto inseguite da nomi come Ufo o Queen. Le band e gli artisti dall’aspetto iconografico più marcato (dai Pink Floyd ad Alice Cooper) erano quelli che investivano maggiori energie nella grafica dei cartelloni e va da sé che nomi come i Kiss trionfavano nella gara al billboard più colorato.

In ambito afroamericano particolarmente attiva era la Motown che – avendo gli uffici nella parte più a est del Sunset – aveva opzionato uno spazio davanti a Tower Records, negozio in cui i suoi artisti apparivano regolarmente. Come rileva Robert Landau, l’arrivo di punk e new wave ridurrà drasticamente la scala cromatica privilegiando toni scuri e – nel caso ad esempio di Deborah Harry (Blondi) e altri colleghi – rivelando un’attenzione particolare ad un’iconografia più vicina al mondo della moda. Eppure qualcosa stava per perdersi irrimediabilmente. Nel 1981 esordirà Mtv cambiando drasticamente le regole della promozione e della pubblicità rock. I denari che prima venivano investiti nei cartelloni più visionari ora venivano dirottati sempre più nella realizzazione di video e brevi film. All’improvviso restavano in giro solo i cartelloni cinematografici, gli altri, quegli enormi, travolgenti billboard rock che avevano caratterizzato Los Angeles e il resto delle metropoli Usa sparivano dalle impalcature: non servivano più per misurare e definire il successo artistico/culturale di un artista. Fine di un’era.

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