L’arte sbocciata tra i rifugiati
Intervista Un incontro con Mario Rizzi, a Roma per il doppio appuntamento espositivo, al Maxxi per la mostra «Istanbul» e presso lo Studio Miscetti, dove ha una personale. «Ogni operazione artistica compie una scelta politica, non solo estetica, altrimenti sarebbe un servizio televisivo»
Intervista Un incontro con Mario Rizzi, a Roma per il doppio appuntamento espositivo, al Maxxi per la mostra «Istanbul» e presso lo Studio Miscetti, dove ha una personale. «Ogni operazione artistica compie una scelta politica, non solo estetica, altrimenti sarebbe un servizio televisivo»
«Credo che oggi l’arte non si possa esimere dall’essere impegnata nel reale. Personalmente lavoro sempre sul reale e, in un certo senso, lo ‘fictionalizzo’, perché per me è importante cercare di destrutturare, rivedere, riesaminare il presente per cercare di trovare altri modi di leggere quello che sta succedendo. Compio scelte e ci sono riferimenti logici, anche estetici quando lavoro, ma non è questo l’obiettivo. La scelta formale è sicuramente più consapevole nella post produzione – afferma Mario Rizzi – Attivismo e ‘artivismo’ sono parole che deviano, portando in un’altra direzione. Qualsiasi opera artistica non può rimanere confinata in una situazione, altrimenti si trasforma, senza alcuna critica di giudizio, in un servizio televisivo. Deve avere un valore universale anche nel suo significato. Ma questo valore non si acquista solo con un fattore estetico: puro e semplice diventa, alla fine, un giocare sull’idea di contemporaneo senza avere la contemporaneità». L’artista e filmmaker Mario Rizzi (Barletta 1962, vive e lavora a Berlino) è a Roma in occasione del doppio appuntamento che lo vede protagonista della personale Al Intithar (a cura di Cristiana Perrella) allo Studio Stefania Miscetti (fino al 20 febbraio) e di Istanbul. Passione, gioia, furore (a cura di Hou Hanru, Ceren Erdem, Elena Motisi e Donatella Saroli) al Maxxi (fino al 30 aprile).
Al Intithar (L’attesa) è il primo episodio della trilogia (con questo progetto Rizzi ha vinto nel 2012 il Production Program Award della Sharjah Art Foundation) sul tema della casa (bayt in arabo), ispirata all’autobiografia House of Stone: A Memoir of Home, Family and a Lost Middle East di Anthony Shadid. Il film è stato girato nel campo profughi siriano di Zaatari, nel deserto giordano, e narra la storia di Ekhlas Alhlwani, giovane vedova di Homs e dei suoi tre figli (il maggiore Abdo lascerà il campo per andare a combattere in Siria dove sarà ucciso). Anche il secondo film – Kauther (2014) – girato in Tunisia, è dedicato a una figura femminile – Kauther Ayari – prima donna tunisina ad aver parlato apertamente contro il dittatore Ben Ali; il terzo sarà girato nel 2016 in Libano, nel campo profughi palestinesi di Mar Elias.
Con i suoi lavori esposti al Maxxi affronta, invece, il tema della consapevolezza di una società civile. quella turca, all’indomani dell’occupazione di Gezi Park, sia nelle due serie fotografiche che nei film Murat ve Ismail (acquistato nel 2010 dal Moma di New York) e The outsider (2015). «Una società – spiega Rizzi – alimentata dall’utopia di quei giorni, che consolida il contratto sociale creatosi a Gezi tra individui spesso non affiliati e non impegnati precedentemente in processi politici e sociali. The outsider è più complesso rispetto agli altri miei film, innanzitutto perché il processo sociale e politico nato a Gezi è ancora in corso: vi sono infinite interpretazioni e contrastanti sviluppi. Per un outsider era un grande rischio e una grande responsabilità darne una lettura filmica, seppure aperta e discorsiva. Inoltre, in Turchia la repressione di tutto ciò che si oppone alle politiche neoliberiste e autoritarie di Erdogan è diventata pesante e cruenta e tutti gli attivisti e gli intellettuali dell’opposizione, anche i pacifisti, rischiano la loro vita nell’esprimere liberamente le proprie opinioni, come dimostrano le stragi di Suruç ed Ankara. Fare un film su Gezi ha richiesto un grande equilibrio per rispettare le idee degli attivisti, per non censurare le loro idee né le azioni, senza pregiudicare la loro incolumità fisica».
Già nel 2005 con «Murat ve Ismail» venivano affrontate tematiche legate ai cambiamenti di Istanbul, che sono diventate sempre più pressanti…
Murat ve Ismail è la storia di un padre e di un figlio che sono ciabattini e vivono l’intera giornata nel loro negozio di artigiani, con visioni diverse sulla vita, ambizioni differenti. Questi contrasti sono gli stessi che si ritovano nella società in mutamento. Allora il tema della Biennale di Istanbul, a cui ero stato invitato, verteva proprio sulle trasformazioni urbane e sociali. Decisi di partire da questo microcosmo per raccontare i cambiamenti nella città, ma anche le pressioni che, per colpa della gentrificazione, del capitalismo e delle politiche liberiste, subiva un negozio come quello, in pieno centro a Beyoglu: varie persone volevano convertirlo in supermercato e, alla fine, sono riuscite nel loro intento. Qualche mese fa, il figlio è stato sfrattato, nel frattempo il padre è morto. Ora il negozio è un centro yoga. Il film è la loro storia ripresa per tre mesi, la loro vita, i loro incontri, la loro relazione, i problemi del figlio con l’alcol, quelli con la mafia locale.
Per la mostra al Maxxi lei si è fatto portavoce dell’esperienza di tre gruppi di attivisti, uno ecologista, uno armeno e la comunità Lgbt, tornando anche al linguaggio fotografico – con cui ha iniziato il suo percorso artistico, accantonando gli studi di psicologia – con i ritratti della serie «Yanki» (2015)…
Ritrarre gli attivisti estraniandoli dal loro contesto mi sembrava che non avesse senso, finché nei giorni del Gay Pride, anzi della Settimana Pride – perché a Istanbul a distanza di una settimana ci sono il Trans Pride e poi il Gay Pride – ho conosciuto Yanki Bayramoglu, una transessuale. Lei è stata tra le più attive a Gezi, sin dal primo giorno ha piantato la sua tenda lì. Prima era riuscita a non cadere nella prostituzione, unica possibilità che viene lasciata alla comunità transessuale, facendo la modella per lingerie, ma subito dopo aver dichiarato pubblicamente la sua sessualità aveva perso tutti i contratti di lavoro. Così della sua identità ne ha fatto una questione politica, è diventato un punto personale di orgoglio e ha partecipato – vincendolo – al 5° Transgender Beauty Contest. Da quel momento, però, ha ricevuto infinite minacce di morte tanto da dover lasciare la Turchia per andare in Svizzera. Ho concepito i suoi ritratti come uno shooting di moda, tra l’altro in un periodo lontano sono stato anche fotografo di moda, quindi era un’opportunità per coniugare il linguaggio che avevo usato nel passato con l’impegno che ora caratterizza i miei lavori.
Nelle fotografie che scatta, come nei film, quasi non si percepisce la sua presenza «drammaturgica»…
Non è una cosa così impensabile, o non comprensibile, perché c’è un lavoro alle spalle. Una conoscenza, un avvicinarsi ma senza la telecamera. Cerco di spiegare cosa sto facendo nel linguaggio delle persone, non tutti comprendono cosa sia un progetto d’arte e il suo senso. Per gli attivisti di Gezi forse poteva essere più interessante, per propagare le loro idee, un giornalista e non un artista, che rimane in un ambito teoricamente più chiuso. Ho spiegato loro che anche l’arte può produrre cambiamento. Passaggi come questo vengono fatti prima, ecco perché nei miei progetti non mi paracaduto mai in un luogo per un breve periodo. Nel campo di Zaatari sono rimasto sette settimane, e poi ci sono tornato per altre due, non i tre giorni che vengono concessi solitamente. Dalle 7 del mattino alle 11 di sera ero lì tutti i giorni. Solo per dormire andavo nel paesino vicino di al Mafraq. Dormivo lì perché era una garanzia per l’incolumità sia della gente del campo che della mia. In un campo dove ci sono rifugiati siriani si trovano anche gli shabiha, che in arabo vuol dire fantasmi, ovvero quelli che lavorano per Assad. Quindi può capitare che la tenda venga bruciata e lo straniero che è outsider, anche se nel tempo diventa insider, è sempre un intruso. A Zaatari ho filmato solo dopo le prime tre settimane, le prime immagini erano molto generiche del campo, situazioni paesaggistiche, la tempesta di sabbia.
Come avviene la scelta di una storia tra tante altre?
Prima di partire so quello che voglio, il frame è chiaro. Però all’interno di quel frame non so come verrà realizzato il soggetto. Poi diventa tutto un dono, si spera vicendevole. Nel senso che si creano delle relazioni, contatti per cui si comprende che quella storia è importante e simbolica per quello che si vuole dire. Ad esempio in Al Intithar assume un valore metaforico raccontare dei rifugiati, del significato che la casa ha per loro, di come cambiare la storia del loro paese, quindi anche delle rivoluzioni arabe, attraverso una vedova in una tenda. La scelta avviene quando scatta qualcosa, si crea un dialogo reale e c’è una comunicazione completa che non è solo formale. Non conoscere la lingua mi permette di stare attento alle reazioni delle persone, all’interazione che si crea, e non solo a ciò che voglio. Con la padronanza della lingua si va a tema, anche inconsciamente si segue un discorso e può diventare qualcosa di estremamente soggettivo. Con Ekhlas Alhlwani, alla fine, comunicavamo benissimo anche con le mie poche parole di arabo e l’inglese che lei ha imparato durante quel periodo.
Il legame è divenuto sempre più intenso. Lei aveva un grande problema con il figlio maggiore che aveva visto ammazzare il padre, aveva subito la prigionia e provava disagio a starsene nel campo mentre gli altri combattevano. C’era tensione tra Abdo e sua madre. Una tensione dovuta all’età, perché il ragazzo aveva 17 anni e lei 29: lo aveva avuto quando ne aveva 12. Non c’era, quindi, quella distanza tra madre e figlio che crea un rispetto. Talvolta lui andava fuori dagli amici e non tornava a dormire e in tenda rimaneva solo la madre con la bambina piccola, perché l’altro figlio aveva il negozio di pizzette e doveva rimanere sul posto, altrimenti gli avrebbero rubato tutto. Una volta Ekhlas è venuta da me piangendo: non sapeva come fare con il figlio, voleva che io parlassi con lui. Si era creato un legame che andava al di là del film.
Di questa storia mi interessava anche il fatto che lei fosse una donna sola nel campo. Le donne, poi, non stanno a pensare a come opporsi domani, ma a cosa mangiare domani, a come tenere unita la famiglia, vestire i bimbi. Cose forse più pratiche, ma che creano quell’unione familiare che in una situazione come quella rendono possibile la vita stessa. Senza di loro, non esisterebbe neanche il campo.
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