L’autonomia dell’opera d’arte dal suo autore è un principio comune a diverse scuole critiche del Novecento. In Europa, forse, l’apice di tale pensiero fu raggiunto quando Barthes dichiarò provocatoriamente, in un celebre saggio del ‘67, che l’autore era da considerarsi «morto». Certo è che, allontanandoci dal confortevole mondo dell’analisi critica, nell’odierno dibattito pubblico l’autore sembra piuttosto un morto che cammina. D’altronde, siamo nell’epoca dei social, degli scandali e delle notizie clickbait; così, nonostante sia già qualche decennio che la critica d’arte ha seppellito autori e biografie, le notizie dei misfatti del genio ritornano dall’oltretomba e turbano la pacifica fruizione delle opere da parte del pubblico.

La cronaca di un simile turbamento è il tema del libro Mostri di Claire Dederer, appena uscito per l’editore Altrecose (traduzione di Sara Prencipe, pp. 320, euro 20). In Mostri Dederer, piuttosto che intervenire sulla questione spinosa dell’ermeneutica, racconta il dilemma morale dello spettatore alle prese con le terribili biografie degli artisti che ama. Quasi un memoir sentimentale, dove l’autrice illustra una galleria di autori amati ma «mostruosi», ponendosi una domanda che fa da sottofondo all’intero libro: è giusto godere dell’opera di una persona eticamente ambigua?

Da qui, il libro si dirama principalmente in tre direzioni. Anzitutto, Dederer commenta le biografie di grandi artisti, da Woody Allen a Raymond Carver, che hanno commesso fatti più o meno terribili. In secondo luogo, l’autrice racconta la propria esperienza con una certa élite wasp del mondo della cultura americana che, soprattutto prima del movimento #MeToo, indulgeva sulle colpe del genio in virtù dei suoi meriti artistici. È il punto maggiormente autobiografico del libro, dove troviamo una giovane Dederer alle prese con una élite culturale ostile, prevalentemente maschile, arroccata sul proprio privilegio. Dederer ci mostra efficacemente il brodo di coltura in cui gli abusi sono stati possibili, un certo modo di sorvolare su crimini che vengono minimizzati come «vizietti», quasi fossero il prezzo da pagare all’artista per la sua arte.

Da ultimo la scrittrice talvolta cede, pur titubando, alla tentazione di considerare immorali le opere di certi autori per le loro vicende biografiche. È la parte più problematica del libro, dove Dederer tenta di stabilire un nesso tra opera d’arte e biografia dell’autore. La «macchia» dell’autore, secondo Dederer, finirebbe per insozzare anche il suo lavoro, provocando l’impossibilità dello spettatore di godere di un’opera serenamente. In realtà, la stessa Dederer finisce per riconoscere che ritenere valida un’opera non significa (ovviamente) approvare le azioni perpetrate dal suo autore – parlando di Polanski, Dederer scrive: «Polanski ha diretto Chinatown, uno dei più grandi film della storia del cinema. Polanski ha drogato e sodomizzato la tredicenne Samantha Gailey. I fatti sono questi, inconciliabili».

Tragicamente, questa è forse l’unica conclusione a cui arrivare. Tuttavia, per buona parte del libro, Dederer si pone degli interrogativi morali che portano a esiti talvolta bizzarri – come quando l’autrice si sente in colpa per aver ballato I Want You Back dei Jackson 5 o abbandona una mostra di Picasso dopo essere venuta a conoscenza dei maltrattamenti che il pittore commetteva nei confronti delle sue compagne. Dederer non è affatto una critica naïve: le analisi da lei proposte delle opere che prende in esame sono pregevoli e lei stessa si ferma, di tanto in tanto, per fare distinguo e aggiustare il tiro delle sue analisi. A ogni modo, in molti passi del libro si fatica a cogliere il punto di un certo smarrimento, a dir la verità tipicamente americano – è in fondo così importante per l’ascoltatore di Joni Mitchell sapere che abbandonò il figlio?