La data ufficiale della sua nascita è dibattuta (1962, ’63, ‘64?). La sua stessa inventrice accreditata, Mary Quant, si è tolta il merito di essere stata la prima a proporla dicendo: «Né io né Courrèges abbiamo avuto l’idea della minigonna. È stata la strada a inventarla». Sia come sia, quei pochi centimetri di stoffa che hanno cambiato la storia della moda e il modo di vestire delle donne hanno non solo l’onore di una giornata mondiale (6 giugno), ma non sono mai usciti di scena.
Giri per le città e, soprattutto in estate, ora più che mai vedi ragazze che liberano i corpi, a volte talmente tanto che sembra siano uscite con indosso poco più della biancheria intima. Sospetto che dietro ci sia il desiderio di reimpossessarsi della vita dopo due anni di chiusure, fatto è che, come mi ha confidato un’amica che gestisce un negozio di abiti vintage: «Adesso vogliono abiti corti e scollati. In pratica vogliono andare in giro quasi nude».
Corpi perfetti e imperfetti, magrissimi o abbondanti, pieni di curve o efebici, in giro vedi di tutto, come se a chi si veste, o sveste, importasse fino a un certo punto di aderire a dei canoni estetici. È il segno che ad alcune di queste giovani importa di più il gesto che lo specchio. Provocazione? Liberazione? Seduzione? Credo che ogni storia parli per sé e ognuna di noi potrebbe raccontare un sacco di cose sulla sua prima minigonna o sull’effetto che le dava indossare ridottissimi hot pants per la strada. Se penso a me stessa, mi viene in mente prima di tutto un concetto. Senso di sfida. Ero cosciente del mio potentato.
Tre anni fa, quando intervistai Letizia Battaglia, mi disse, parlando delle palermitane: «Le donne si sono emancipate, mentre gli uomini stanno ancora lì a pensare che ruolo darsi. Oggi è bellissimo vedere passare queste ragazze del popolo con il culo di fuori, ragazze che fino a pochi anni fa i padri le avrebbero ammazzate se solo si fossero affacciate al balcone. È una conquista? No, è una moda che però mostra come oggi possono non avere più paura di un padre».

A Milano il senso del culo di fuori è diverso? Non azzardo risposte. Osservo, guardo i giovani corpi che passano esibendo incarnati e muscoli levigati e mi accorgo che qualcosa non torna, come se, a dispetto del nudo, mancasse qualcosa. Mi vengono in mente le giovani che vedevo all’inizio degli anni Settanta, in gonne cortissime, stivaloni, maxi cappotti svolazzanti. Invidiavo, io bambina non ancora ammessa al mondo dei grandi, la loro libertà di scegliere come vestirsi, ridere, camminare a braccetto, amiche felici. Allora mi colpiva non la minigonna in sé, non i centimetri di pelle nuda, ma l’insieme al centro del quale emergeva una personalità, un modo di porsi che raccontava un modo di appartenersi.
Oggi, mi accorgo che raramente il mio lo sguardo si alza dalle gambe al viso, dalla scollatura all’insieme. Perché? Qual è la differenza fra le ragazze di inizio anni Settanta e le silfidi che vedo oggi in città? Fra queste ultime, solo una mi è rimasta nella memoria. Era meno perfetta di tante altre, meno bella, ma era intera. Vedevi le gambe nude e notavi la camminata, aggressiva, scattante, e allora ti veniva voglia di guardarla in faccia e scoprivi un’espressione acuta, vorace. Era lei, solo lei. Per questo me la ricordo.

Se è importante poter scegliere come vestirsi, o svestirsi, perché l’abito è anche un gioco con se stessi e delle parti, altrettanto importante è imparare che non sono i centimetri di pelle al vento a fare la differenza, ma il modo in cui te li senti addosso e li porti nel mondo.

mariangela.mianiti@gmail.com