Coreografia da «Cecità» di Virgilio Sieni, foto di Virgilio Sieni

Un rumore d’acqua. Una luce che cambia colore attraverso sfumature pulsanti. Un sipario di trasparenze dietro al quale il gesto tattile di due mani regala l’illusione che la sfocatura dei corpi possa svanire ridefinendo i contorni. Uno spettacolo di cui resta la sensazione nell’acuire degli occhi di essere trascinati in un’atmosfera lattiginosa, addosso una scivolosa densità. Cecità è il nuovo lavoro di Virgilio Sieni, fresco di debutto la settimana scorsa al Tpe Teatro Astra di Torino nell’ambito di una stagione che, per scelta del direttore Andrea De Rosa, risponde a una sollecitazione sul non vedere in senso reale e metaforico. «Chi è il cieco? Che cosa non vuole vedere? E perché?» Un appello lanciato a più artisti su ciò che fa distogliere lo sguardo da verità sull’oggi e sull’essere umano. Da stasera a domenica è al Fabbricone di Prato, il 22 al Morlacchi di Perugia. Dietro il telo si muovono tra bagliori che trascolorano gli interpreti. Giochi di ombre nella luce, corpi, mani
Sieni sceglie un titolo che allude all’omonimo romanzo del premio Nobel José Saramago: come non ricordare quel male bianco che avvolge un’intera città, gli occhi stanchissimi rivolti all’interno, l’ex manicomio, i soprusi, il non vedere che tragicamente rivela. Per Sieni Cecità è il legame con un capolavoro che diventa nella libera ispirazione importante tappa di un progetto cominciato vari anni fa collaborando con il danzatore non vedente Giuseppe Comuniello. Il loro ultimo duo, Danza cieca, in tournée in questi mesi, è un lavoro da cui si sono sviluppate feconde riflessioni sul gesto, sulla tattilità, sul rapporto con l’altro. Ne è nato anche un librino di appunti dallo stesso titolo, Danza cieca (Cronopio editore), un testo in cui prestare attenzione a quel fenomeno dell’aura, «quell’intorno» scrive Sieni «che crea una spazialità leggera, tenue e attraversabile, che arricchisce la visione nella lontananza e sollecita la percezione nella vicinanza… Danza cieca è mettersi in cammino e stupirsi della materia invisibile che ci guida alla scoperta di una topografia archeologica». L’arrivo a Cecità è perciò un raccogliere elementi, percorsi, esplorazioni di figure immaginarie, di piccoli dettagli e infinitesimali variazioni che portano il gesto a incontrare l’altro con feconda sensibilità.

ECCO QUINDI lo spettacolo. Dietro il telo si muovono tra bagliori che trascolorano gli interpreti. Capiremo poi chi e quanti sono. Dalla platea è tutto un gioco di ombre nella luce, di corpi, di mani, di braccia, di teste che si fanno riconoscibili avvicinandosi da dietro al telo. Tornano reminiscenze da altri spettacoli di Sieni profondamente toccanti e misteriosi, come Tristi Tropici e Chukrum su musica di Giacinto Scelsi: in Cecità mosse a uno spostamento percettivo dal riandare con la memoria a quel biancore ancora intenso, lasciato nella memoria con tante altre cose, anche terribili, dalla lettura del romanzo. Cecità come realtà e metafora. Si cerca dalla platea di distinguere i corpi, di capire cosa accade dietro al telo, quell’avvicinarsi che sembra rendere possibile con lo sguardo persino il tocco. Nella seconda parte il telo non c’è più. Il candore è una scena chiusa da pareti di stoffa bianca da cui escono i danzatori, Jari Boldrini, Claudia Caldarano, Maurizio Giunti, Lisa Mariani, Andrea Palumbo, Emanuel Santos. La musica originale di Fabrizio Cammarata è un avanzare di moti sonori, che si avvolgono nello spazio chiaro. Per il coreografo lo spettacolo è un legame con un capolavoro che diventa tappa di un progetto nato anni fa collaborando con il danzatore non vedente Giuseppe Comuniello

I SEI SI MUOVONO come ciechi, gli occhi sono semichiusi, per terra oggetti molli che sembrano pezzi di corpo (costumi e elementi scenici di Silvia Salvaggio), ci si inciampa, i sei trovano nel movimento la tattilità dell’invisibile, formando gruppi, fila, solitudini, opposizioni. Nella cecità emerge un dialogare dei corpi, ma anche la possibilità di lasciare che all’uomo, come alla fine di tutto, si opponga una animalità primigenia, un bagno nell’origine che è, forse, un necessario ricominciare da capo. È la terza parte, aperta da una figura cara a Sieni, quella ontologica di Arlecchino, in mano un microfono su una asta sbattuto contro le pareti. È un Arlecchino cieco, il volto coperto di bianco. Con lui si palesa un popolo inquieto di volpi, di satiri. Saranno loro a chiudere Cecità, aprendo, con il loro sguardo fisso sul pubblico, interrogativi sull’uomo e la sua possibilità di azione. Da vedere.