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L’arte di narrare al tempo della sua mercificazione

L’arte di narrare al tempo della sua mercificazioneReggia di Venaria, Videoinstallazione «Caravaggio Experience», 2017; sotto, Michel Foucault, foto di Marc Trivier

Scrittori italiani A metà strada fra il romanzo e il saggio, l’ultimo lavoro di Tommaso Pincio, «Il dono di saper vivere» (Stile libero) elegge Caravaggio a simbolo del destino dell’arte di trasformarsi in merce

Pubblicato circa 6 anni faEdizione del 22 ottobre 2018

Una ingegnosa macchina narrativa, che si muove a metà strada fra il romanzo e il saggio: così si presenta l’ultimo lavoro di Tommaso Pincio, Il dono di saper vivere (Einaudi, Stile libero Big, pp. 195, euro 17,50). La parte romanzesca racconta una storia all’apparenza minimale: un giovane diplomato all’Accademia di Belle Arti, aspirante scrittore, si ritrova bloccato in una serie di lavori monotoni, in qualità di addetto alla vendite di vari prodotti, specificamente telefax e opere d’arte. Commette un omicidio e viene condannato al carcere dove sarà tormentato da un avvocato unto di cultura libresca.

Se alla base di questa parte del racconto c’è quella epistemologia modernista fondata sull’ipertrofia del soggetto narrante, sulla confusione fra vita e letteratura, sulla crisi della capacità rappresentativa, che è ricorrente nei romanzi di Pincio, totalmente diversa è la parte saggistica, una lucida riflessione, nel nome di Caravaggio, sul rapporto fra arte e denaro e fra la nuda realtà e la sua spettacolarizzazione narrativa.

Sotto il segno di Warhol
La funzione che spetta a Caravaggio è legare le due parti del romanzo, sia tematicamente che metaforicamente: da un lato, infatti, le similitudini fra la sua vita e quella del protagonista sono evidenti, e Pincio le rivela reiteratamente al lettore comunicandogli la sensazione di stare leggendo un romanzo a chiave; d’altra parte, quello che è il centro teorico della narrazione, ovvero il rapporto dialettico fra arte e denaro, è fondamentale tanto nella vita del protagonista quanto nella vita del pittore. Non a caso, l’intera seconda parte del romanzo, più scopertamente saggistica, è sotto l’egida di una serie di epigrafi tratte da Andy Warhol, il pittore che con maggiore consapevolezza ha lavorato, nel secondo ‘900, sulla relazione fra il prodotto artistico e il suo ingresso nel mercato, fra il valore tout court dell’arte e il suo controvalore in denaro (quella relazione che Banksy ha recentemente provato a infrangere, provocando la distruzione di una sua opera dopo che era stata battuta a un’asta di Sotheby).

Questa molteplicità di livelli interni fa sì che il romanzo di Pincio si articoli in una serie di strati narrativi funzionanti sulla base di una lunghissima catena di rimandi: quando una scena o un semplice elemento della narrazione rimanda a un altro elemento della vita del protagonista, della vita di Caravaggio, o del rapporto arte-denaro, Pincio interrompe il plot principale e passa a concentrarsi sulle narrazioni «secondarie», che poco alla volta diventeranno il vero romanzo (l’intreccio principale sarà lasciato incompiuto).
Così, Il dono di sapere vivere è contenitore di almeno quattro storie differenti: la vita del suo protagonista, la vita di Caravaggio, il libro su Caravaggio che il protagonista sta scrivendo, i racconti sulla vita del pittore di cui è artefice il protagonista stesso, al fine di meglio vendere i quadri che ha nella galleria dove lavora; e queste quattro narrazioni primarie si moltiplicano a loro volta. Cosa hanno in comune? Per l’appunto il tema trattato nella parte saggistica del libro, ovvero il rapporto arte-denaro.

Tutti e quattro i fili narrativi sono infatti finalizzati alle vendita di un prodotto, di una merce: il protagonista, la cui galleria si trova nella via dove Caravaggio uccise Ranuccio Tomassoni, racconta aneddoti sulla vita del pittore per meglio vendere i quadri di cui dispone; il libro che sta scrivendo su di lui è anch’esso finalizzato ad essere venduto, dando al protagonista un ritorno economico e di prestigio nel mondo in cui lavora; la vita avventurosa di Caravaggio, così come viene raccontata dai suoi biografi e critici, è servita (e serve) a far accrescere il valore delle sue opere; la biografia del protagonista, infine, diventa il volume Einaudi firmato da Tommaso Pincio, con il suo prezzo sul retro della copertina.

Ogni attività narrativa (o artistica) ha dunque lo stesso movente: trasformarsi in un valore economico. Se il destino dell’arte è diventare merce, si spiega perché Pincio abbia deciso di utilizzare Caravaggio al tempo stesso come sintomo del fenomeno e come suo simbolo. Primo dei moderni, Caravaggio è infatti portatore di una serie di prerogative che connettono la sua produzione artistica alla sfera del mercato. Non solo la sua vita sregolata solletica l’interesse maudit del fruitore borghese accrescendo il già alto valore effettivo delle sue opere, ma Caravaggio è anche il primo «pittore di massa», vale a dire capace di destare l’interesse di folle oceaniche disposte a mettersi in fila – pagando un prezzo un biglietto – per assistere alla mostra che gli dedicò Roberto Longhi nel 195, al Palazzo Reale di Milano.

Niente va a buon fine
Non a caso la Zecca di Stato decise di riprodurre il volto del pittore sulle centomila lire, al tempo la valuta più alta, facendolo subentrare a Manzoni, che esprimeva ancora una idea di arte non sottomessa alla relazione con il mercato. Ma c’è un’ultima ragione, la più importante, a rendere Caravaggio espressione perfetta della relazione arte-denaro nel nostro tempo: il suo essere – scrive Pincio – «l’inventore del realismo fotografico» (alcune pagine del romanzo sono dedicate ai quadri realizzati mediante la tecnica copiativa della camera oscura), il primo a intuire che l’arte contiene in sé, avrebbe detto Benjamin, la sua infinita riproducibilità, cioè la sua virtuale immissione nel mercato della società di massa sotto forma di poster, cartoline da bookshop museali, fotografie scattate dai nostri smartphone.
Alla «funzione Caravaggio» si contrappone, nel romanzo, l’incapacità cronica del protagonista di diventare un buon venditore, ciò che ne farà un fallito e contemporaneamente farà decadere quell’idea di romanzo a chiave che sembrava dominare le prime pagine del libro. Nessun filone narrativo andrà infatti buon fine: non riuscirà il romanzo su Caravaggio, non si venderanno le opere della galleria in cui l’autore lavora e l’incapacità di raccontare sarà tutt’uno con l’incapacità di vendere, perché se il denaro è l’espressione nascosta e alienata della merce, la narrazione – sembra dire Pincio – ne è il vangelo. A differenza del suo protagonista, Tommaso Pincio ha portato a termine il proprio romanzo, un’opera di estrema intelligenza che è gratificante leggere, e il suo libro è diventato, con il prezzo in quarta di copertina, arte e merce al tempo stesso, espressione meta-narrativa dei temi che tratta.

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