Visioni

L’arte di insegnare e l’esigenza di libertà

L’arte di insegnare e l’esigenza di libertà

Cinema Un ricordo di Gianni Rondolino, scomparso sabato a Torino. L’università, la critica, Godard, Keaton, la Nouvelle Vague, l’ideazione del Festival torinese Cinema giovani oggi Torino film festival

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 12 gennaio 2016

Conobbi Gianni intorno al 1972, nelle auliche sale seicentesche dell’Accademia delle Scienze di Torino, di cui per un periodo fu il segretario, dove ero andato per chiedergli la tesi. Avevo frequentato i suoi primi corsi all’ Università sulle avanguardie storiche. Cominciavo anche a conoscere il suo lavoro degli anni ‘60 nel CUC (il cineclub universitario) e nelle riviste torinesi, «Centrofilm», una serie di quaderni monografici di cui fu direttore, e «Il Nuovo Spettatore Cinematografico», che co-diresse con Paolo Gobetti. Gianni allora era già molto attivo nelle principali associazioni e negli enti di cultura cittadini, dal Centro Gobetti all’Aiace all’Unione Culturale, luoghi di prestigio della sinistra intellettuale torinese.
Già la costellazione delle sue predilezioni critiche di allora è il segno di una ricerca curiosa e non convenzionale: Godard, Keaton, la Nouvelle Vague (cui dedicò un numero speciale del «Nuovo Spettatore» nel 1963), più tardi Rossellini e Cottafavi. Bellissimi e preziosi furono i volumi L’occhio tagliato, Documenti del cinema dadaista e surrealista (1972) e Laszlo Moholy Nagy. Pittura, fotografia, film (1975) nella collana «nadar» della Galleria Martano. Tra i primissimi aveva esplorato il cinema d’animazione non disneyano (il libro di Einaudi, frutto di molti anni di ricerche, è del 1974). L’avanguardia europea degli anni ‘20 e ’30 (compresa quella sovietica, molto amata), ma anche il cinema di Weimar e – a seguire – il «caso» controverso e cruciale di Leni Riefenstahl, erano interessi destinati a durare nel tempo, al di là delle mode e dei temporanei oblii. Nella sua successiva, ampia pubblicistica di studioso, agirà sempre l’idea che il cinema si rinnova e si reinventa in permanenza nel suo divenire anche al di fuori della forma narrativa classica, in un movimento di interazione e di tensione tra una forma e l’altra, senza barriere e recinti precostituiti.

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Negli anni Settanta – in un momento di tabula rasa, di reinvenzione della vita e del cinema, di fermenti, di fervore, di utopie, di illusioni – Gianni fu il professore universitario col quale si venne a formare tutta una nuova generazione. Nasceva quel clima di passione e di ricerca che avrebbe nutrito la scena torinese per qualche decennio. Lui, che era già stato un esponente della stagione precedente al 1968, aiutò e favorì lo sviluppo di quella nuova, sempre mosso da curiosità e da attenzione verso i giovani ai quali offrì molte occasioni. Fu l’interlocutore sensibile e attento della nuova ondata della cinefilia torinese riunita intorno al Movie Club (dal 1974 al 1984), che si muoveva in direzioni più eccentriche, avventurose ed eterodosse rispetto all’Aiace e alle altre associazioni.

 

 

 

Senza farne parte in senso stretto – e magari senza condividerne le scelte – dimostrò una costante voglia di confronto. Ricordo le grandi discussioni sulla nostra rivalutazione di Matarazzo- che proprio non condivideva! – e i suoi richiami al (relativo) ordine costituito da Rossellini, Cottafavi e Visconti. Uomo di grande generosità ci aiutò del tutto disinteressatamente per garantire la stessa esistenza di un gruppo eterogeneo che era sostanzialmente anarchico e incontrollabile, difficilmente assimilabile alle felpate e paludate maniere della «torinesità».
Per un lungo periodo Gianni fu per me animatore, consigliere, provocatore di scambi e di riflessioni, trasmettitore di energie, e finalmente amico. Sollecitava la collaborazione e la discussione tra i liberi e i diversi. Era un «passeur» che assicurava e accompagnava il passaggio tra la sua generazione e quelle successive. La sua costante curiosità intellettuale era sicura garanzia di anticonformismo, gusto per le esperienze nuove e il rischio, voglia della sfida e della sorpresa.

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E fu precisamente con questo spirito che nacque nel 1981 il Festival Internazionale Cinema Giovani. Prima come direttore (dal 1982 al 1988), poi come presidente (dal 1989 al 2006) Gianni fece del Festival il laboratorio comune e la palestra intellettuale di personalità diverse, in cui si sono formati nuovi collaboratori di più generazioni e in cui vigeva la regola della successione interna. Fu anche il geloso e tenacissimo custode della libertà del Festival da ogni ingerenza politica o altra, il garante dell’autonomia e delle scelte artistiche personali dei diversi direttori. Ogni anno, nella serata di chiusura, aspettavamo il suo immancabile pistolotto sulla libertà del Festival davanti agli assessori : gli avvenimenti successivi avrebbero dimostrato quanto quel discorso fosse in realtà ben poco retorico e scontato.
La fine della sua Presidenza, frutto di un’aggressione politica inaudita, è una storia in fondo ancora ben poco conosciuta negli snodi decisivi anche se si sanno fin troppo bene i nomi degli autori. Bugie e manipolazioni di ogni genere si abbatterono su di noi con gelida premeditazione. Il Festival lo avevamo riportato dal Lingotto in centro con successo, avevamo formato un pubblico e avevamo la sua fiducia. Godeva di un riconoscimento internazionale importante. Aveva lo staff migliore d’Italia, grazie al quale era possibile accettare la sfida di realizzare un programma ricchissimo e vario con mezzi limitati.

 

 

 

Avevamo grandi ospiti e pubblicavamo dei bei libri. Ma quella libertà non era più tollerabile, l’ «esperienza unica» doveva venire fermata e cancellata. Non era più possibile, agli occhi di chi voleva l’egemonia totale, ammettere l’esistenza di un polo indipendente così importante e competitivo. Non siamo pentiti di aver combattuto insieme a Gianni quella battaglia a armi impari.

 

Così Giulia D’Agnolo Vallan scrisse qualche tempo dopo: «Negli ultimi anni del nostro mandato di direttori in Italia cominciava a farsi strada l’idea che un’istituzione pubblica, quando investe in una manifestazione culturale, possa non solo esigere un ritorno di immagine ma anche dettarne le condizioni,come il più miope degli sponsor commerciali (…) Cedere di fronte a un principio del genere è (stato) imperdonabile. Perché è difficilissimo tornare indietro. A Torino, perché questo avvenisse, c’è stato bisogno di un cavallo di Troia».
Ora è molto chiaro che anche di lì è iniziata a dipanarsi una catena ininterrotta di grandi disastri e piccoli orrori (da Roma a Venezia ai tanti piccoli festival liquidati o «accorpati» o sfigurati). I virus letali avevano contaminato la politica culturale dell’intero paese.

 

Sistema cinema? Il segreto della stagione torinese creativa e non conformista, un filo che si dipana lungo diversi decenni fertili e fervidi, e oggi purtroppo interrotto, era stato al contrario il non-sistema, la coesistenza magari conflittuale dei diversi, la nascita spontanea di iniziative, la vivacità nella società, la fantasia dei singoli, la formazione di un pubblico in un reticolo variegato di esperienze plurali. Tutto ciò che di importante era stato fatto a Torino era nato dall’energia e dalle magnifiche ossessioni dei singoli spesso contro tutti (come lo stesso Museo di Maria Adriana Prolo), dalle passioni e dal duro lavoro, non dalle trovate assessoriali e dai bluff mediatici.

 

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Nessuno prima avrebbe mai pensato di riunire Festival e Museo in un unico moloch vorace e pigliatutto (si, proprio quello abusato di Cabiria che campeggia in tutte le loro locandine…). L’annunciata diarchia dei due «grandi» manager e strateghi (?!), che si erano autoeletti a domini del fantomatico «sistema cinema», si è ormai trasformata in una monocrazia autoreferenziale, stordita dal potere e pompata dai media locali, ridotti a pifferi di una ristrettissima e mediocre nomenclatura.

 

 

 

Quanto al «grande regista», chiamato a sostituirci e a «salvare il Festival», è stato una veloce comparsa destinata ben presto a ritrarsi.
Gianni amò sempre molto l’insegnamento universitario e il lavoro coi giovani e fu sempre ricambiato dall’affetto dei suoi studenti. Prima o poi anche questa stagione di stagnazione conformista e provinciale andrà verso la sua fine e una nuova generazione potrà riprendersi in mano quello che le spetta. Risvegliare nuove forze, più giovani e spontanee, meno compromesse e opportuniste, che sappiano ritrovare con energia la passione del cinema, sarà il migliore omaggio che si potrà fare a un uomo che amava molto Jean Vigo e che ha insegnato prima di tutto l’esigenza e l’esercizio della libertà e l’arte della trasmissione. Almeno a chi ha voluto ascoltarlo.

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