Cultura

L’arte contro l’incubo dell’eredità fascista

L’arte contro l’incubo dell’eredità fascistaGran Consiglio (Oscuramento) di Fabio Mauri, 1975

Saggi «Di-scordare», il libro di Viviana Gravano pubblicato da DeriveApprodi. Per elaborare un passato spesso rimosso, sono utili i lavori di artisti come Rossella Biscotti, Gianikian e Ricci-Lucchi, Fabio Mauri

Pubblicato circa 2 mesi faEdizione del 13 agosto 2024

Di-scordare. Ricerche artistiche sulle eredità del fascismo in Italia (DeriveApprodi, pp. 368, euro 23) di Viviana Gravano, storica dell’arte da anni impegnata nella ricerca militante e nell’insegnamento nelle Accademie di belle arti, è un libro importante, e per diversi motivi.

PRIMO: perché ci insegna come funziona e a cosa serve una ricerca storico-artistica «posizionata» e minuziosa, ma allo stesso tempo lontana dai protocolli accademici sterili e tutt’altro che oggettivamente scientifici. Secondo: perché ci dimostra in che senso un’opera d’arte può essere politica senza essere retorica, segnando chiaramente la differenza tra la militanza da un lato e il buonismo giustificazionista dall’altro. Terzo: perché come in una seduta psicoanalitica ci costringe a guardare alla nostra storia collettiva e personale, e quindi al nostro presente, senza infingimenti né assoluzioni.
Il tema del volume è la memoria (il rimando obbligato è alle ricerche di Maurice Halbwachs), e i suoi luoghi (e qui il riferimento è ai lavori di Pierre Nora), soprattutto quella che non abbiamo rispetto al Ventennio o, meglio, abbiamo rimosso e mistificato per sentirci assolti nei confronti di una responsabilità che, a sua volta, rinvia direttamente al dispositivo capitalistico moderno e a quello neoliberista nel quale si sono sviluppate le nostre coscienze e abbiamo costruito le nostre vite.

PER ESSERE PIÙ CHIARI: Gravano sostiene che rispetto al fascismo ci sia stata una sorta di rimozione passata attraverso l’amnistia firmata da Togliatti e la costruzione del mito della Resistenza che, in qualche modo, ha permesso a una forma di vita fascista di continuare a esistere anche dopo la fine della guerra e, allo stesso tempo, ha consentito agli italiani di sentirsi vittime e non carnefici, rimuovendo così le responsabilità collettive che, come la Germania, abbiamo avuto nella tragedia della seconda guerra mondiale.

DEL RESTO, tutto l’immaginario a cui siamo stati abituati ha generalmente proposto l’idea di un nazionalsocialismo feroce e di un fascismo più dolce, facendoci dimenticare la violenza strutturale di una cultura politica che non è stata semplicemente «alleata» di Hitler, ma la sua principale fonte di ispirazione. Allo stesso modo, in Italia abbiamo «dimenticato» la nostra storia coloniale, tanto che oggi pochi saprebbero nominare tutti i territori d’oltremare conquistati in passato.
La rimozione ha quindi permesso un progressivo e surrettizio recupero dell’arte fascista da parte di una cultura che è rimasta a lungo, come già durante il Ventennio, sostanzialmente idealista e formalista. Questo è vero per tutta la cultura italiana, almeno fino agli anni Sessanta, basti pensare al gramscismo togliattiano che venne offerto agli intellettuali come via di fuga dall’attualismo gentiliano e quindi come lasciapassare per una ricollocazione nell’Italia repubblicana.
Questo rimosso è ciò che ha poi autorizzato una serie di mostre, e tra queste la più emblematica è stata senz’altro Annitrenta organizzata nel 1982 nella Milano socialista, di recuperare il «Novecento» sarfattiano dentro la retorica del classicismo e dell’antico in un paese ormai assuefatto all’economia del turismo di massa postmoderno.
È questa ideologia, quella del Belpaese, che ha concesso all’Italia di continuare a essere fascista, provinciale e profondamente razzista, quasi senza accorgersene. È perché, come scrive l’autrice, «la nostra classe intellettuale, salvo rare eccezioni, aveva aderito a pieno al regime, o divenendone vero e proprio cantore o non opponendosi e sfruttandone comunque i vantaggi», che oggi siamo di nuovo un paese fascista in cui lasciamo morire migliaia di persone in mare con la stessa indifferenza complice con la quale molti italiani lasciarono partire i treni per i campi di concentramento.

CONTRO QUESTO «INCUBO» contemporaneo l’arte può essere un dispositivo di risemantizzazione e quindi risignificazione dei luoghi e della memoria. Non si tratta tanto o solo di «cancellare» i monumenti di un passato difficile da digerire quanto di rielaborarli per restituirli a un presente che può diventare radicalmente democratico solo guardando fino in fondo l’orrore sul quale si regge. In questo senso l’autrice ripercorre i lavori di Rossella Biscotti, Daniele Timpano, Gianikian e Ricci-Lucchi, tra gli altri, e soprattutto quelli di Fabio Mauri, un artista politico che non ha mai smesso di rielaborare criticamente la sua e la nostra memoria, così come hanno fatto in Germania artisti come Jochen Gerz e Hans Haacke.
È in questa chiave, sostiene Gravano, che l’arte può dirsi radicalmente «politica» e quindi essere la struttura profonda della dimensione pubblica e privata delle nostre vite. Se l’arte, insomma, diventa una seduta psicoanalitica collettiva, possiamo iniziare a elaborare l’indifferenza complice con la quale guardiamo, ancora oggi, un murale di Mario Sironi o il Colosseo quadrato all’Eur. In fondo, proprio questa è l’introduzione a una vita non fascista.

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