Larry Cohen, un rivoluzionario nelle strade di Manhattan
Cinema Un’intervista racconta il regista Usa scomparso, sguardo spericolato del cinema indipendente. Autore di horror eccentrici come «Baby Killer», satira sulla famiglia americana, la sua opera sfugge a ogni genere
Cinema Un’intervista racconta il regista Usa scomparso, sguardo spericolato del cinema indipendente. Autore di horror eccentrici come «Baby Killer», satira sulla famiglia americana, la sua opera sfugge a ogni genere
«Un originale autentico». Così Joe Dante ha ricordato Larry Cohen, una delle menti più libere, idiosincratiche e spericolate della storia del cinema indipendente Usa, scomparso qualche giorno fa a ottantadue anni. Newyorkese nel profondo del Dna (era cresciuto a Washington Heights, e non perse mai l’accento), allenato dalle strade di Manhattan e scrivendo per la tv, quasi sempre autore delle sceneggiatura dei suoi film (di cui spesso controllava anche i diritti), Cohen viene accorpato alla rivoluzione dell’horror degli anni settanta, in particolare per suo maggiore successo, Baby Killer (It’s Alive,1974). Ma il suo rapporto con il genere era più obliquo, strano, irriverente di quello di Romero o Carpenter. L’intervista che pubblichiamo qui sotto è un estratto di quella realizzata per il catalogo della Viennale che gli dedicò una retrospettiva completa nel 2010.
Ti hanno paragonato a Hitchcock ma il tuo regista favorito era Michael Curtiz che attaversò molti generi come te.
Sono suoi alcuni dei miei film favoriti, con Bogart, Cagney ed Errol Flynn. Curtiz faceva di tutto, persino musical. Ma tutti i suoi film avevano in comune un’energia speciale. C’era sempre qualcosa che stava succedendo. La macchina era sempre attiva. Hitchcock invece rifaceva sempre lo stesso film. È vero che mi ha influenzato molto. I suoi film sono molto divertenti. Gli piaceva giocare degli scherzi al pubblico, manipolarlo. Dirigeva il pubblico quanto gli attori. It’s Alive gli deve molto, per le musiche di Bernard Herrman, per l’uso soggettivo della cinepresa. E perché, più di ogni altra cosa, stavo dirigendo il pubblico anch’io. Il mostro si vede pochissimo.
Sei spesso descritto come un regista dell’orrore, di fantasy o fantascienza. Ma nessuna di queste etichette mi sembra giusta.
I miei film hanno altri elementi, oltre l’immagine del tipo col coltello che salta fuori dall’armadio. Non ho mai fatto slasher. Infatti i distributori ogni tanto – come nel caso di The Stuff (Stuff- Il gelato che uccide, ’85) si lamentavano che i miei film non erano abbastanza orrorifici o gore. Il fantasy mi piace. La fantascienza anche a patto che non sia troppo tecnologica. Preferisco idee bizzarre che vanno aldilà della norma – come il tipo che va in giro per la strada dicendo che è Dio in God Told Me To (’76) – perché se un alieno arrivasse sulla terra forse si sentirebbe Dio. Preferisco giocare di fantasia a livello mentale che con le macchine.
«God Told Me To» è anche una satira feroce sulla religione. E molti tuoi film hanno temi politici. Ma il tuo punto di vista è sempre quello di uno scetticismo divertito
Non mi sono mai identificato con un partito e non ho mai fatto parte di un movimento. La mia è più la prospettiva di un osservatore. Vedo corruzione da entrambe le parti. È difficile trovare qualcuno al potere che non si stato corrotto durante il viaggio. Una volta sono stato a una training session per una manifestazione contro il nucleare. Mi è sembrato un trip di potere e basta. Non mi andava di essere manipolato come una marionetta.
Quindi sei d’accordo che la satira è una buona chiave di lettura per il tuo cinema?
Probabilmente. Ogni tanto qualcuno mi chiede: perché non fai commedie? Ma ne ho fatte tante! Anche It’s Alive ha dello humor. L’idea di un bambino mostro che scorrazza qua e là è un po’ una barzelletta.
È uno dei tuoi maggiori successi e un bell’attacco all’immagine della famiglia americana perfetta.
Erano anni difficili per il Paese. I genitori non sapevano più chi fossero i loro figli, ne avevano paura, li vedevano come estranei che a quattordici, quindici anni si chiudevano in camera, usavano droghe, parlavano male, marciavano in strada. Ho pensato che ci fosse una parabola interessante – una famiglia felice ha un bambino mostro. Ma non diventa mostruoso a 15 anni. Nasce così!
Spielberg ha usato molte delle idee visive di «It’s Alive» in «E.T.».
Certo. It’s Alive è il lato oscuro di E.T.. E.T. è un film su una creatura benevola nascosta in casa dai bambini. It’s Alive su un mostro che la mamma tiene nascosto. Ci sono molte similitudini, persino le pile nella notte, all’inizio. Spielberg mi ha detto che il mio film gli era piaciuto molto. E, ironicamente, io ho cercato per anni d fare un film come E.T.. Si intitolava Space Pet, cucciolo spaziale. Certe volte si hanno le stesse idee. In quel caso Spielberg è arrivato prima. E ha fatto un lavoro magnifico, senz’altro meglio di quanto avrei fatto io.
Vivi da anni a Los Angeles ma stilisticamente non hai mai smesso di essere un regista di New York.
New York è il «backlot» migliore del mondo. Baste uscire e trovi qualcosa di interessante da girare. È una citta pieni di energia, di complessità. Vecchi edifici vicino a nuovi, vetro, vicino ai mattoni, grattacieli, chiese…. Tutto compresso. C’è sempre qualcosa che aggiunge profondità alle immagini, magari anche solo una bizzarria nel background. Certe volte ho modificato la sceneggiatura sulla base di posti scoperti all’ultimo momento. E la città ha influenzato il mio modo di girare – nell’angolatura dell’inquadratura, per esempio, dall’alto verso il basso. Quella è New York – l’immensità della città che rende minuscoli gli individui. Certo, oggi non so se potrei girare come facevo all’inizio, senza permessi. In God Told Me To abbiamo girato la parata di St. Patrick senza chiedere a nessuno, alla faccia di 5.000 poliziotti. In Hell Up in Harlem (Tommy Gibbs criminale per giustizia, ’73) abbiamo una scena con un attore che si arrampica sull’insegna della Coca-Cola della 47esima strada armato di un fucile telescopico. Anche quella senza permesso!
«The Private Files of Edgar J. Hoover»è stato girato nel quartier generale dell’Fbi. Hai detto spesso che è il tuo film favorito. Perché?
Betty Ford era una grossa fan delle star del film, Broderick Crawford e Dan Dailey e durante e riprese li invitò alla Casa bianca. Quando ho chiamato l’ufficio pubbliche relazioni dell’Fbi e detto loro che i miei attori erano a pranzo dal presidente ci hanno spalancato le porte. E così tutta Washington. Il film mi piace molto anche perché, prima di allora, a Hollywood nessuno aveva mai fatto un film senza avere l’approvazione per l’uso del sigillo dell’Fbi, o senza avere agenti sul set come consulenti. Noi stavamo facendo un film critico dell’Fbi, e senza l’approvazione del Bureau. Tutti mi dicevano di lasciare perdere – e chiaramente ho fatto il contrario
È un film politicamente interessante. Criticato molto dalla sinistra e da Arthur Schlesinger
Ho cercato di farlo nella vena di Patton – che era un totale figlio di puttana ma un buon generale. Hoover è stato a capo dell’Fbi per 48 anni. Ha fatto cose terribili ma anche cose buone. Schlesinger era un fan dell’interpretazione di Crawford ma non appreò il mio trattamento di Roosevelt, il fatto che mostrassi come fosse stato lui ad approvare le registrazione segrete e i campi d’internamento per giapponesi. Ma tutti i presidenti nel film sono delle teste di cazzo. Kennedy non era certo ideale. Hoover ha servito democratici e repubblicani e ha fatto ogni sorta di nefandezze, ma non era da solo. Il film voleva solo dire quello.
Nel film combini documentario e fiction. A quel tempo non era comune.
Non avendo soldi ho dovuto ingegnarmi con i newsreel, non potevo ricostruire il funerale di Kennedy! E poi volevo che il film avesse una qualità anni ‘40, Hoover era un personaggio di allora anche se è rimasto al potere fino agli anni ‘70.
Il tuo primo film, «Bone», ti ha messo sulla mappa come un regista di blaxploitation…
Per me era una commedia macabra. Ma lo hanno promosso come se fosse Shaft o Superfly. Chiaro che poi il pubblico si arrabbiava. Fortunatamente, la Aip riconobbe che avevo fatto un buon lavoro con gli attori afroamericani. Quindi mi diedero l’opportunità di fare Black Cesar, che era poi la versione black di un film gangster della Warner Bros., come Public Enemy o Little Cesar. Nei film di blaxploitation l’eroe trionfa sempre, uccide bianchi, seduce le loro donne… Nel mio è l’opposto: lui cerca di giocare al gioco dei bianchi, è tradito da coloro che ama e finisce per morire nelle macerie dei ghetti dove è cresciuto.
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