L’arrivo della peste nera e l’immaginario macabro
Storia medievale Dalla fine del XIII secolo i racconti su corpi putrefatti e scheletri, così come certe raccapriccianti visioni pittoriche, trovarono un inaspettato alleato nella Chiesa
Storia medievale Dalla fine del XIII secolo i racconti su corpi putrefatti e scheletri, così come certe raccapriccianti visioni pittoriche, trovarono un inaspettato alleato nella Chiesa
Nel 1346 la peste arrivò in Crimea. Inoculata nell’uomo da pulci che avevano morso ratti infetti (il batterio responsabile sarebbe stato scoperto solo nel 1894), la malattia si era diffusa lungo le vie commerciali attraverso l’impero mongolo e aveva raggiunto i tatari impegnati nell’assedio di Caffa, colonia genovese e porto nevralgico sul Mar Nero frequentato dai mercanti italiani. Sfibrati da tre lunghi anni d’assedio in condizioni igieniche paurose e dalla virulenza del morbo, nel 1348 i tatari «consapevoli di morire e senza più speranza di salvezza, decisero di caricare i cadaveri sui trabocchi e di farli cadere nella città di Caffa affinché espandessero dappertutto un intollerabile fetore». Fu il notaio piacentino Gabriele de’ Mussi nella sua Historia de morbo sive mortalitate a raccontare l’inizio della peste in Crimea, descrivendone poi il tragico diffondersi dall’Asia all’Europa e all’Africa. Da Caffa una nave con pochi marinai riuscì infatti a partire: fu così che il morbo raggiunse la Sicilia, poi Genova, Venezia, la Toscana e infine tutta la penisola, decimando una popolazione divenuta troppo numerosa per le risorse del tempo, già debilitata da anni di epidemie e carestie. «Sembrava fosse giunto il giorno del giudizio universale», chiosò il Mussi.
Qualche anno prima che la pestilenza rendesse ordinarie tragiche e raccapriccianti scene di morte sia in città che in campagna, nel Camposanto Monumentale di Pisa Buonamico Buffalmacco aveva immaginato e dipinto la Morte: una spietata vecchia con ali di pipistrello abbandonava al suo passaggio mucchi di cadaveri, pronta ad abbattersi su una lieta brigata di gaudenti, ignari della sorte imminente. Già prima della grande pestilenza il tema del macabro aveva fatto la sua comparsa nell’immaginario dell’epoca: dalla fine del tredicesimo secolo racconti con protagonisti corpi putrefatti e scheletri spaventosi, così come poi le loro rappresentazioni, si erano rapidamente diffusi in Occidente, trovando un inaspettato alleato: la Chiesa.
È questa una delle ipotesi interpretative esposte da Chiara Frugoni nel suo ultimo lavoro dedicato alle Paure medievali Epidemie, prodigi, fine del tempo (il Mulino «Grandi illustrati», pp. 400, € 40,00). Fino alla fine del dodicesimo secolo la Chiesa era riuscita a indurre i fedeli a pensare alla sorte ultraterrena ricordando loro supplizi e tormenti infernali, come quelli descritti minuziosamente nel timpano sovrastante la porta d’ingresso dell’abbazia di Sainte-Foy a Conques, in Francia, con diavoli intenti a punire e torturare una folla di peccatori esemplati sulla società del tempo, mentre il paradiso – l’unico altro regno ultraterreno allora contemplato – era luogo per eletti, santi e pochi altri personaggi importanti. Dalla fine del dodicesimo secolo, tuttavia, un terzo regno si era aggiunto, il purgatorio, la cui nascita è stata indagata in un famoso libro da Jacques Le Goff (La naissance du Purgatoire): la possibilità di accedere al paradiso una volta espiate le proprie colpe si sostituì al timore dell’inferno, e i fedeli, così rassicurati, si preoccuparono sempre meno del loro destino ultraterreno. Fu allora che la Chiesa, per rimarcare la transitorietà del corpo e dei beni materiali e la necessità di salvare l’anima, volle alimentare con la paura la coscienza dell’incombere della dannazione eterna.
Nonostante secoli e conoscenze ci separino dal Medioevo, questo libro ci ricorda come molte delle paure di allora abbiano tratti di somiglianza con quelle di oggi, tanto più in un presente improvvisamente e inaspettatamente travolto da un’epidemia, che, come la peste nera di allora, si è diffusa dall’Asia a tutti gli altri continenti, viaggiando insieme agli uomini. Sono paure insite nella natura umana quelle affrontate nei vari capitoli del libro: la paura della fame e della miseria, la paura del diverso, delle malattie e, infine, delle epidemie e della peste. E, certo, della fine del mondo: anche se Chiara Frugoni sottolinea come questa sia stata quasi più temuta dall’uomo testimone del passaggio dal secondo al terzo millennio che da quello medievale, visto che anche il leggendario anno Mille fu un’occasione passata abbastanza in sordina, per le incertezze sull’anno di nascita di Cristo e la scarsa attitudine dei più al calcolo degli anni. Come sua consuetudine, la studiosa analizza i temi proponendo splendide immagini, interpretate grazie a un’acuta capacità esegetica basata sulla padronanza delle fonti scritte e su un patrimonio di conoscenza acquisito negli anni, che riaffiora in questo volume, ad esempio, negli episodi legati a san Francesco.
Cos’è che spaventava gli uomini, le donne e i bambini del Medioevo? Come reagivano e affrontavano le loro paure? A queste e altre domande, così come ai problemi e ai dubbi che le accompagnano, Chiara Frugoni ha cercato di dare risposte, ricordando, se ancora ce ne fosse bisogno, l’importanza della conoscenza del passato per evitare di ricadere sempre nei medesimi errori. «Teniamo strette al petto tutte le paure medievali. Cosa potrebbe sciogliere questi lacci? Ragionare. Ma per questo occorrerebbe scacciare l’ignoranza e conquistare l’istruzione, un oggetto del desiderio, per molti, desueto».
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